Ieri sera suonavano i Rhapsody e io sono partito nervosetto.

Il perché in fondo è ovvio. In adolescenza con loro ci sono cresciuto, nel periodo in cui il power metal, soprattutto quello sinfonico, esplodeva raggiungendo picchi inimmaginabili e proiettando anche band nostrane, Rhapsody a capofila, su importanti palchi di tutto il mondo. Finché poi la discografia è cambiata, il mondo stesso è cambiato. E quello stile si è semplicemente annichilito sulle fragili gambe di un fenomeno cresciuto troppo in fretta e forse esaurito in innumerevoli copiature. Riascoltato adesso (cosa che mi capita molto, molto di rado), la distanza tra quel sottogenere e quello che il metal è diventato nell’ultimo decennio, si è fatta siderale.

E dunque questo concerto mi caverà  una lacrimuccia in ricordo dei tempi andati, o mostrerà  di essere invecchiato male? Andarci rimane comunque d’obbligo per molte ragioni: in primis perché rappresenta un tributo dovuto a chi la storia del metal italiano l’ha fatta… e poi perché prendere o lasciare: i Rhapsody si scioglieranno alla fine di questo tour e non ci sarà  una seconda occasione per chi come me, mea culpa, non ha mai assistito a un loro spettacolo.

A far loro da spalla altre due band power (una un po’ piùheavy a dire il vero). Prevedendo una serata ad alto tasso di zucchero, assicuro la metaforica insulina in fondo alla tasca e arrivo comodamente in Zona Roveri alle 20.15, in largo anticipo e con la sensazione sottopelle che l’organizzazione dell’evento farà  buca: -ma chi vuoi che venga?-

Sbagliato. La sala è già  piena per tre quarti a quell’ora ed entro metà  serata ci sarà  da soffocare. C’è sia gente che ha circumnavigato la boa dei quaranta da un pezzo, sia ragazzini che durante l’epoca d’oro dei Rhapsody dovevano essere in fasce.

 

Bello, penso, compiaciuto dalla velocità  con la quale al bancone si scontrina e si serve la birra. Allo Zona Roveri l’efficienza è sempre garantita, anche per gli orari dei concerti; e infatti l’intro degli Scarlet Aura parte alle nove spaccate, interrompendo tre quarti d’ora di sottofondo a base di Muse (che son bravi, per carità , ma anche non fissarsi alle volte può essere raccomandabile).

Faccio per allontanarmi dal bancone perché sono pignolo e i concerti li ascolto in posizione centrale, quanto piùpossibile. Poi la frontwoman Aura Danciulescu arriva sul palco con una maschera e un paio di enormi ali in lana merinos e penso che forse è meglio rimanere dove sono, che in caso di emergenza ci sono le birre.

Il quartetto romeno attacca meglio di quanto, col senno di poi, finirà  per offrire. Sarà  forse perché la damigella rimuove ali e maschera e si mostra con corsetto d’ordinanza in tutta la sua grazia. Il pezzo di apertura è abbastanza compatto, i suoni già  decentemente scolpiti e una menzione va alle backing vocals che, seppur aiutate da basi, sono intonate e riempitive. Nonostante Aura canti bene, la voce fatica a venir fuori con adeguato mordente e in generale al sound sembra mancare qualcosa. Con i pezzi successivi il motivo diventa purtroppo evidente.

Il problema degli Scarlet Aura sono innanzi tutto le canzoni (e dici poco!): piantati su un costante tempo medio in regione dei 120 bpm, non li si distoglie da quel senso di “half time” nemmeno con le frustate e, dopo un po’, la cosa diventa noiosa. Dal momento che le strutture dei brani sono semplici, ci si aspetterebbe almeno un po’ di catchiness ma in realtà  gli unici due temi melodici che sopravvivono alla loro esibizione sono nella song “You’re not alone”, probabilmente perché la hitline si ripete un trilione di volte, e nella cover, ovvero “Zombie” dei The Cranberries. La recente morte della O’Riordan permette un’accoglienza del brano persino partecipativa da parte del pubblico e, onore al merito, i nostri la portano a casa. La qual cosa si rivelerà  piùun boomerang che altro.

Chiunque mi chiedesse di isolare cinque pezzi dei The Cranberries che ritengo decenti mi metterebbe in seria difficoltà , però che Zombie sia una bella hit non ci piove. Ecco, suonarla in mezzo ai propri brani, quando questi non sono memorabili, non farà  che acuirne il gap qualitativo.  Aggiungici una batteria minimale e non sempre precisa anche nel poco che fa, un basso impalpabile, fantomatico, che non offre concreto aiuto all’unica chitarra (e piùci inoltriamo nell’esibizione, piùl’assenza si fa sentire) e il gioco è fatto.

La Danciulescu fa quel che può per coinvolgere un pubblico che, va detto, non li conosce. Si porta persino a casa una bandiera italiana lanciatale da qualcuno e dunque della simpatia si può dire la raccolga. Nel complesso però, su una scala in birre da una a dieci, dove una birra corrisponda allo show della vita e dieci alla sbronza consolatoria, ci assestiamo su un solido sei.

È ora di un cambio palco veloce e in sottofondo riattacano i Muse (big surprise) ma per un solo pezzo, perché poi dalla console ci sfoderano “The Final Countdown” ed è un dettaglio da tenere a mente: poco dopo avrà  un senso.

 

21:55 Beast in Black. Inutile dirlo, ho già  una birra in mano sulla sfiducia; ammetto di non averli mai sentiti. Da una ricerchina veloce pre-concerto avevo appurato trattarsi del nuovo progetto di Anton Kabanen, mastermind dei Battle Beast fuoriuscito un paio d’anni fa per divergenze artistiche. Prima volta in Italia, presentano il loro debut “Berserker”. Un gruppo power con lyrics ispirate ai fumetti. Non promette bene ma ascoltiamo comunque, mai essere prevenuti.

Mi posiziono al centro col mio bravo bicchiere pieno, ma sempre a distanza utile per lanciare un rampino e raggiungere il bancone.

Alle 21:55 l’armata finlandese si presenta sul palco e, fossi fulminato qui se esagero, tira giùtutto.

Power metal è power metal, pacchiano e tamarro. Il vocalist Yannis Papadopoulos canta solo in un falsettone allucinante, tra pezzo e pezzo persino parla in falsetto (roba che a sgridare eventuali figli, o foss’anche il cane, proprio non ce lo vedo). In un ottimo inglese apostrofa parte del pubblico, la quale non risponde subito come vuole lui, con un “soft guys”… che detto da uno con il giaccone di Neo Anderson e le croci diritte (per non sbagliare) ha qualcosa di surreale. Basterebbe questo a suggerire una piùattenta degustazione di birre.

Invece no.

I Beast in Black, a loro modo, sono perfetti. Hanno dei suoni della madonna, delle canzoni che, furbe e smaliziate come sono, non si possono definire se non come earworms (ovvero quel maledetto motivetto che ti entra in orecchio e non se ne vuole andare per giorni e giorni). Lo spettacolo c’è tutto, senza esagerazioni ma calcolato dall’inizio alla fine. Nulla è lasciato al caso. L’esecuzione è semplicemente impeccabile: l’unico “errore” (?) dell’intero show lo fa uno dei due chitarristi, che forse chiude male il pot volume e produce un suono simile alle monetine del cambio al casello autostradale, quando non sei tutto in bolla e le fai cadere sull’asfalto (non mi riferisco a me, ovviamente, ma a “mio cuggino”).    

Il livello tecnico è invidiabile, assoli tondi e fluidi, neanche una nota fuori posto. Il pubblico è vivo ma canzone su canzone i finlandesi lo inchiodano a inerme ammirazione per la performance cazzuta cui sta assistendo.

Su “Blood of a Lion” i synth alla “The Final Countdown” mi fanno quasi gridare al plagio, impressione poi molto ridimensionata da un successivo riascolto… ma comunque noto che uno dei due chitarristi, Heikkinen, è il clone di John Norum e fino alla fine non riuscirò a cavarmi dalla testa quest’idea.

Arriva anche il momento truzzo con “Crazy, Mad, Insane”, pura house anni novanta in salsa metal, suonata con occhiali a LED su cui scorrono i sinonimi del titolo.

Il concerto finisce dopo quaranta minuti di botta tremenda e solo in quel momento mi accorgo che la birra è ancora tutta nel bicchiere. Siamo già  fuori dalla scala di valutazione di cui sopra (in positivo) e ditemi voi se è poco.

In sintesi: se portassi alla mia famiglia un disco come “Berserker” sarei crocifisso al contrario come Pietro. Però che i Beast in Black non sbaglino niente nella vita è pure un dato di fatto. Quindici anni fa, quando il genere esisteva davvero, avrebbero sbancato.

 

Con leggerissimo ritardo, verso le dieci, arriva l’ora dei Rhapsody. Le mani si alzano sull’intro “In Tenebris”, chi non era già  dentro si affretta a farsi spazio tra la folla e la band capitanata da Luca Turilli e Fabio Lione si presenta sul palco con una gloriosa “Dawn of Victory”.

L’approccio sonoro è completamente diverso e la differenza con il gruppo che li ha preceduti si sente tutta, all’inizio non in un’accezione positiva. Come mi capita però spesso di notare, chi sceglie suoni meno aggressivi e arrembanti finisce per trarne un vantaggio, forse non in un contesto festivaliero ma almeno in show personali con durata decente. Facendo un bilancio a freddo devo dire che il paradigma si applica anche a questo concerto, ma con una riserva: da pezzo a pezzo, a seconda dei pieni e della struttura piùo meno complessa, il suono delle due chitarre di Turilli e Leurquin non sfugge a un certo fastidioso pastone, compromettendo a tratti la distinguibilità  globale.

A parte ciò, il sound dei Rhapsody in live è tanto simile a quello che ricordavo nei loro dischi che quasi mi commuovo.

Il quintetto (Alex Staropoli, storico tastierista della band, non ha mai preso parte alla reunion) sembra ben felice di star sul palco e tanto piùin Italia, come il buon Lione rimarcherà  a piùriprese. Turilli salta per tutto il tempo di qua e di là , come un furetto sotto metamfetamine (cit. commento di luminare ignoto su Youtube che meriterebbe di scrivere per Treccani), Lione chiama il pubblico e ne pretende la partecipazione. Bologna risponde.

Gli errori sono pochi e Alex Holzwarth si dimostra come sempre un pistone che là  dietro dà  sicurezza. Anche se, onestamente, le scelte acustiche nell’amplificazione della sua batteria sono quantomeno vintage (cassa semi-sepolta, tom altissimi e scuri come colpi di obice, rullante scacciacani-style). L’ottimo Patrice Guers al basso potrà  non essere sempre valorizzato ma è fondamentale nell’ossatura dei pezzi piùcomplicati e, quando viene fuori come in “Dawn of Victory”, è ineffabile.

L’attenzione dei Rhapsody si concentra sugli album centrali della carriera, dimenticando tutto ciò che segue. Sono quindi ben rappresentati “Symphony of Enchanted Lands” “Dawn of Victory”, “Power of the Dragonflame” e il bellissimo EP “Rain of a Thousand Flames”. Un solo pezzo, “Land of Immortals”, ricorda l’esordio “Legendary Tales”. La scelta è saggia, perché questi lavori rappresentano il vero apice della formazione triestina; ogni canzone si trasforma in un inno da cantare tutti assieme perché tutti li conoscono.

Fabio Lione è particolarmente ciarliero e ci racconta del tour sudamericano da poco concluso, delle sue escursioni brasiliane in solitaria, di come il 31 dicembre scorso abbia dormito in macchina perché aveva fatto un casino… di come sia tornato in Italia da appena due giorni e un po’ disastrato vocalmente. Beh, mi vien da dire che se quella è una voce disastrata ce ne sono ben pochi che si possono dire titolati a cantare: di rado ho sentito un timbro così organico, armonico e bello per natura (al di là  che piaccia o meno il suo stile). Se di quando in quando pare in effetti costretto a gestire certe tessiture riducendo la pressione, il mestiere e il controllo assoluto del proprio mezzo espressivo compensano alla grande.

 Scherza col pubblico, fa il piacione e poco a poco il concerto prende la piega di un reunion in famiglia che aggiunge qualcosa in piùalla già  bellissima esperienza. Un paio di esempi su tutti? A un certo punto inchioda alle proprie responsabilità  circa certe non meglio specificate bottiglie di vino Alex Ventriglia, caporedattore di Metal Hammer Italia, disperso da qualche parte tra la gente.

Poco dopo il pubblico lo incita gridando il suo nome e lui ci scherza sopra, dicendo che all’estero lo confondono con un’attrice, tal Patrizia “qualcosa”. Alla successiva occasione in cui la platea lo richiamerà  fuori, lo farà  al grido di “Patrizia! Patrizia!”. Cose che ti fanno chiedere “ma che cazzo sta succedendo?” con il sorriso sulle labbra.

Momenti superflui, a mio modesto avviso, rimangono il drum solo di Holzwarth (ancora una volta, ribadisco, bravo ma… un assolo a rullate cicliche come negli anni 80 era proprio necessario?) e la cover di “Con te partirò” di Bocelli; cantata magistralmente, per carità , ma confesso che sarei sopravvissuto anche senza. L’assolo di basso di Guers invece, pur se non necessario, ci ha almeno permesso un momento per certificare il suo ottimo livello tecnico.

La suite “Symphony of Enchanted Lands” vede il cameo di un’altra bella ragazza, Nicoletta Rosellini dei Kalidia; voce cristallina la sua, ma la performance non è proprio tutta a fuoco (salire on stage a freddo per 30 secondi non è mai facile, in ogni caso).

Mezzanotte e mezza è passata ma i nostri sembrano non voler scendere dal palco neanche col fucile a pallettoni puntato contro. Generosità  molto apprezzata dalla folla che non pare stanca; e in ogni caso non intende andarsene prima che i Rhapsody suonino il loro pezzo piùiconico, quello per il quale nel bene e nel male saranno sempre ricordati. A palco vuoto il pubblico ne canta il ritornello all’unisono e, quando finalmente la band esce e attacca il main riff della tanto agognata “Emerald Sword”, buona parte delle persone comincia a saltare. In linea con quel clima famigliare di cui parlavo poco fa, Lione invita anche Alessandro Conti (Trick or Treat) a cantarla con lui per un finale davvero corale ed esplosivo.

Alla fine della serata, quasi all’una, me ne vado contento per uno spettacolo abbondante e qualitativo. Se questa è la fine dei Rhapsody, possiamo davvero dire che se ne va col botto una formazione che tanto ha dato alla scena metal e che ha davvero meritato il proprio successo. Personalmente, pur avendo oggi altri ascolti, non posso che essere felice di aver avuto l’occasione di rivivere i bei momenti che mi hanno regalato.

Grazie per tutto, ragazzi.  Grazie Rhapsody !

 

Tracklist:

 Beast in Black:

Beast in Black – Blood of a Lion – The Fifth Angel – Crazy Mad Insane – Blind and Frozen – Born again – End of the World

 

Rhapsody:

 In Tenebris (intro) – Dawn of Victory – The Wisdom of the Kings – The Village of Dwarves – Power of the Dragonflame – Beyond the Gates of Infinity  – Knightrider of Doom – Wings of Destiny – Riding the Winds of Eternity – Symphony of Enchanted Lands (feat. Nicoletta Rosellini) – Alex Holtzwarth Drum solo – Land of Immortals – The Wizard’s Last Rhymes – Patrice Guers Bass solo – Con Te Partirò (cover) – Holy Thunderforce – Rain of a Thousand Flames – Lamento Eroico – Emerald Sword (feat. Alessandro Conti)

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