Domenica 5 ottobre, all’ Arci Tom di Mantova, ho assistito ad una splendida esibizione dei Bosco Sacro.
L’atmosfera nella sala – carica di attesa, luci soffuse e con un pubblico raccolto e silenzioso – ha preannunciato una performance che ha trasferito i presenti in un’altra dimensione.
Con i Bosco Sacro si intraprende un viaggio meditativo ed al tempo stesso potente, che accompagna l’ascoltatore in un susseguirsi di paesaggi sonori che toccano la spiritualità, la natura ed il respiro del corpo. Si avverte con chiarezza l’ispirazione della “spiritualità naturale” che accompagna il gruppo.
Musicalmente, la prestazione è stata impeccabile e l’intensità emotiva palpabile.
Dal vivo, i Bosco Sacro, hanno mostrato una maturità notevole, in quello che non è stato un semplice concerto, ma più un rito che coinvolge corpo, mente e sensi, aprendo le porte della percezione.
Il pubblico, catturato ed ipnotizzato, ha risposto in modo caloroso, con applausi sinceri, momenti di silenzio assorto ed un’attenzione rara.
Successivamente, il gruppo, si è reso disponibile a rispondere a qualche mia domanda.
Vi lascio quindi alla bella intervista che abbiamo realizzato…

Ciao, sono contento di poter fare quattro chiacchiere con voi e di aver la possibilità di approfondire il vostro mondo. Vi presentate ai nostri lettori?
(Giulia) Ciao, grazie a te e a tutta la redazione per lo spazio e l’attenzione che date al nostro progetto. Bosco Sacro sono Paolo Monti (The Star Pillow, Daimon), Giulia Parin Zecchin (Julinko), Luca Scotti (Tristan da Cunha) e Francesco Vara (Tristan da Cunha). Siamo quattro persone che si sono unite per creare musica insieme e facendolo, sono diventate una specie di famiglia.
Bosco Sacro nasce dall’incontro di musicisti provenienti da progetti diversi ma direi affini nella ricerca sonora. Se vogliamo provare ad etichettarli, spaziano principalmente tra dream folk, psichedelia, drone, noise e sperimentazione. Cosa vi ha
spinto ad unirvi e a creare questa nuova entità? In che modo queste esperienze precedenti hanno plasmato la band?
(Giulia) Sono stati proprio questi altri progetti a farci incontrare, e a portare Francesco all’intuizione di poter unire le nostre sensibilità, sì, diverse, ma che avevano comunque un’affinità evidente nell’approccio emotivo alla musica: un’inclinazione alla profondità e all’introspezione. La nostra fusione è effettivamente il risultato dell’intreccio delle pratiche derivate dai nostri progetti solisti o di duo (nel caso di Francesco e Luca che insieme sono i Tristan da Cunha). Non una semplice somma, ma qualcosa di nuovo, d’inedito ed inaspettato per noi. Un nuovo nucleo originario, un cerchio formato da quattro elementi.
Qual è stata la sfida più grande nel mettere insieme questo progetto rispetto ai vostri percorsi precedenti?
(Giulia) La primissima cosa che mi viene in mente, e che penso sia la risposta più reale a questa domanda, è la distanza geografica che c’è tra noi. Viviamo in parti diverse d’Italia, e “Gem”, il nostro primo album, è nato a distanza, scambiandoci idee e tracce durante il 2020, anno d’isolamento. Il primo esperimento è andato bene. Una volta trovatici dal vivo a suonare i brani che avevamo assemblato a distanza, questi fluivano perfettamente e si è creata una grande sintonia umana.
Spesso ci è capitato di pensare a quanto sarebbe tutto più semplice, più scorrevole, meno faticoso e meno dispendioso, se fossimo più vicini. Dall’anno scorso abbiamo deciso di provare a comporre in presenza, diversamente dalla nostra prima esperienza. I sacrifici che facciamo per trovarci in sala prove, o semplicemente, ad ogni tornata di concerti, a volte pesano un po’, ma la musica si sa, è un motore che spinge forte.

Il nome “Bosco Sacro” evoca subito immagini arcaiche, rituali, misteriose. È anche un luogo mentale? C’è un riferimento preciso?
(Giulia) Bosco Sacro è esattamente un luogo della mente, o forse meglio, un luogo del cuore: è un rifugio dove si crea lo spazio per aprire le porte all’intuizione, al selvaggio, al pulsante, al sublime, a ciò che è autentico a livello animico.
Non c’è un riferimento preciso, è un concetto che è nato prima di qualsiasi nostro brano, è stato una guida per dirigerci verso la direzione che sentivamo di voler prendere insieme.
Per me, personalmente, ha avuto un’accezione particolare. Nel periodo in cui è nata questa band vivevo in una casa in collina, effettivamente circondata da boschi. Il bosco era dunque un luogo che vivevo quotidianamente, che abitavo e assaporavo nelle sue luci ed ombre, nei suoi odori, nei suoi suoni. I testi che ho scritto per “Gem” sono pregni di questa esperienza durata per anni.
(Paolo) Questo nome, nato prima di ogni nostro suono, è veramente uno stato d’animo, o meglio, uno stato dell’anima in cui ci siamo trovati, o forse ritrovati. Il resto è venuto da sé. Personalmente ho vissuto in una casa isolata e circondata da boschi per 3, 4 mesi all’anno fino ai miei 11 anni e inevitabilmente il bosco è diventato il mio habitat in cui anche oggi, quando posso, torno ad immergermi.
(Francesco) Quando abbiamo scelto il nome Bosco Sacro, la prima immagine che mi ha evocato sono i gruppi di alberi sparuti in mezzo a contesti cittadini: aree industriali dismesse, periferie trascurate, vita abbandonata ma che rimane un piccolo gruppo di alberi a cui fare appello in una speranza malinconica.
Musica ispirata alla spiritualità naturale. Come nasce l’idea? Quale vuole essere il messaggio?
(Giulia) Appunto volevamo essere sinceri e fare una musica che andasse dritta al punto, che non nascondesse la nostra parte emotiva, ma anzi che la celebrasse e che anche la cullasse.
Nel nostro mondo d’oggi, che cavalca la danza estrema del Kali Yuga, in decadenza, dove le esperienze sempre più si accumulano dietro ad uno schermo del pc o del telefono, la natura sembra essere l’unico specchio reale, l’unica base rimasta a cui fare affidamento e con cui potersi confrontare per ritornare ad un vivere più corporeo, più radicato a terra, non mediato.
Non c’è un messaggio preciso, credo, nella nostra pratica, se non forse quello di provare a lasciarsi andare, di calarsi nell’abbandono, nel misticismo innato della nostra psiche a cui tutte visceralmente tendiamo e che ci eleva. Facendolo, cerchiamo un modo di guarire dalle nostre paure, dai traumi che abbiamo messo da parte, e cerchiamo di non causare male agli altri, e a tutto il creato che ci circonda e con cui interagiamo.
Definire il vostro sound come doom ambient è solo un punto di partenza. Come lo descrivereste voi a chi ancora non vi conosce e vuole capire davvero cosa aspettarsi?
(Giulia) Quando posso evito di parlare di etichette o generi musicali, perché credo limitino l’esperienza e creino aspettative e confini. Ad una persona direi semplicemente di prepararsi a volare molto in alto e allo stesso tempo di calarsi molto in basso, di viaggiare tra silenzio e onde avvolgenti, tra armonie e scosse.

Nel doom e nell’ambient si parla spesso di “peso” emotivo più che musicale. Cosa cercate di trasmettere con il vostro suono?
(Giulia) Sinceramente non credo che sonorità doom e ambient portino con sé un peso emotivo: il peso emotivo è una “materia”, una condensazione di esperienze e sentimenti che portiamo dentro di noi e di cui a volte si è succubi, pensando sia qualcosa di stabile, d’immobile, in quanto percepita a livello interiore.
Grazie all’incontro e al confronto con le vibrazioni gravi e profonde di alcune musiche o di alcune timbriche riusciamo ad accettare ed interagire con tale contenuto, riconoscendolo, osservandolo muoversi e anche trasformarsi, senza negazione.
I suoni che produciamo ci attraversano – per la voce è letteralmente questo che accade. Non siamo altro che dei tramiti, dei traghettatori verso una qualsiasi momentanea, impulsiva, puntiforme liberazione. Per noi la liberazione è quella di andare oltre a noi stessi, oltre alle nostre personalità e ai nostri problemi: servire la musica che ci suona dentro.
(Luca) Credo di aver capito il senso di “peso” emotivo di cui parli. Per me quella emotività è contenuta nella musica tutta, sta alla nostra sensibilità ed affinità più o meno vicina ad una musica rispetto ad un’altra a darle il “peso”, ovvero l’emozione.
Credo inoltre che la nostra musica ne contenga molta di emotività, in quanto noi siamo i primi ad emozionarci nel comporla e nel suonarla. Effettivamente constatiamo che la risposta delle persone ai nostri live è molto carica a livello emozionale.
Il vostro universo sonoro sembra spesso scavare più nella materia spirituale che in quella narrativa. Ci parlate della componente rituale nella vostra musica?
(Giulia) L’unica e fondamentale componente rituale della nostra musica è quella esattamente legata alla produzione dei nostri suoni singoli e del nostro movimento d’insieme. Per un musicista appassionato e devoto, tutto sta nel canalizzare al meglio quello che sente di poter esprimere attraverso il suo strumento, e per fare ciò, ci si predispone ognuno attraverso la propria disposizione fisica, mentale e d’animo.
Sicuramente nella dimensione del concerto, quando ti trovi a condividere la tua energia con tante persone e a veicolare determinate forze che ti attraversano, tutto diventa più risonante, tutto acquista maggior significato e riverberazione nello spazio e nel tempo. Questa è la forza della condivisione.
Personalmente, mi sento onorata di poter cantare i testi che scrivo, che spesso in Bosco Sacro si fanno rivelatori di istanze etico-esistenziali di valore collettivo. Quando canto “I AM NOT AFRAID TO BE DUST” per esempio, sento che il mio messaggio è percepito, sento che il mio messaggio arriva e sento di dare forza alle persone che mi ascoltano, d’instillare una scintilla o di alimentare fiamme già accese che ardono della stessa luce.
I silenzi, le texture, le dilatazioni temporali sono parte fondamentale del vostro linguaggio. Quanto conta per voi il tempo, l’attesa, la ripetizione?
(Giulia) La creazione della dinamica tra forte/piano, dolcezza/veemenza e la ripetizione tipica delle preghiere, delle poesie, dei mantra, è sicuramente una componente primaria del nostro linguaggio. Credo che semplicemente rispetti, sotto diversi punti di vista, il ritmo delle nostre esistenze, del nostro vissuto quotidiano, della misura del “giorno dopo giorno” e anche della prospettiva più larga, quella che tiene in considerazione le fasi o le macro-fasi di una o più vite.
(Luca) Il tempo va sempre in avanti e non si può fare altrimenti, ma con la musica possiamo dare noi IL TEMPO, possiamo dilatarlo, accelerarlo… a volte ripetere alcuni motivi all’interno di esso, accomodandoci e permanendo in un determinato andamento, in un determinato mood. Per me tutto questo processo è cura.
Quando si è immersi all’interno del suono che noi stessi creiamo siamo in un tempo tutto nostro e quando riesci a trasmettere quel tempo, quella dimensione, ad un altro che è lì semplicemente ad ascoltare… bhé, lì si crea la magia.
(Francesco) Le pause, i silenzi sono parte integrante della composizione, non è solo interpretazione. E la circolarità è la vera forza che permette a chi ascolta di integrarsi nel nostro flusso.

Nei vostri lavori sembra esserci un equilibrio tra pesantezza e sospensione. È un contrasto che cercate consapevolmente?
(Giulia) Ci viene naturale giocare su questo equilibrio, che a volte è una tensione, a volte un rilascio, a volte una compensazione che si crea tra una fase e l’altra di un brano. Il senso di contrasto non è mai forzato, risponde sempre alle necessità espressive e narrative del brano.
Ogni artista viene catalogato, definendo la sua musica attraverso generi ed influenze varie. Cosa che ritengo utile ma spesso molto riduttiva. Voi vi sentite parte di un movimento o preferite rimanere ai margini delle classificazioni? Ci tenete a seguire una linea ben precisa in fase di composizione o lasciate spazio ad una più ampia sperimentazione?
(Giulia) Ci sentiamo parte di un movimento in termini di comunità, non di genere o etichetta.
Muoversi per portare in giro la propria musica a livello indipendente ti fa conoscere persone che a loro modo mettono in atto una loro visione peculiare. Ognuno fa la sua parte e contribuisce alla creazione di una realtà multiforme. Lo scambio artistico ed umano è ciò che di più bello e di stimolante si raccoglie in questa impresa.
Il nostro lavoro di composizione è conciliazione tra fasi di sperimentazione e momenti di cristallizzazione. Cerchiamo di guidare il brano, il movimento, verso la sua forma essenziale, verso la parabola secondo noi più espressiva, che non è altro che quella che ci coinvolge di più o che ci fa perdere, ci fa sparire nei suoi meandri, portandoci in una dimensione “altra”.
(Luca) Mi collego al termine di comunità di cui ha parlato Giulia; questa comunità di persone, di musicisti che suonano, viaggiano e si incontrano, è quello che secondo me ci fa ispirare, ci influenza l’uno con l’altro attraversando le barriere dei generi musicali.
Questo per me è la figata più bella del suonare.
L’aspetto visivo (copertine, live, fotografia) accompagna e rafforza l’ascolto. Che valore concettuale ha per voi? Quanta importanza assume nella vostra espressione artistica?
(Giulia) L’aspetto visivo è parte integrante dell’esperienza. Certo, noi siamo quattro musicisti ed il mondo del suono è la dimensione che ci anima, che prediligiamo e che più curiamo, ma anche le forme, le immagini, i gesti concorrono a creare vibrazioni sonore, percettibilmente o meno. Per questo ci siamo dati un nome che evocasse uno spazio, un’immagine, a guidarci; abbiamo creato un logo, insieme a Carlo Veneziano, che esprimesse la circolarità del nostro suono e del nostro rilascio emotivo, oltre che dell’abbandono ad una naturalezza.
Poi, personalmente, quando canto, la visualizzazione è una parte importante della creazione del suono. Il corpo si muove per predisporsi a questa canalizzazione (mentre dico questo mi viene in mente il nostro chitarrista Francesco, spesso chinato per terra o arcuato verso il basso…).
Per esempio, spesso mi viene detto che la mia presenza sul palco è “ipnotica”, “teatrale” o addirittura “spiazzante”: un performer è suono, è immagine, è movimento, e ciascuno di questi aspetti concorre alla generazione di un momento che è, di fatto, unico ed irripetibile.

Parliamo del processo creativo: come nasce un brano Bosco Sacro? C’è molto spazio per l’improvvisazione, oppure costruite i vostri brani in maniera più schematica?
(Giulia) Dipende. Alcuni brani sono nati improvvisando totalmente (vedi per esempio “Les Arbres Rampantes”), altri sono nati attorno ad un luogo ed un’idea e sviluppati però sempre in modo piuttosto libero, pur se tenendo come riferimento alcune caratteristiche su cui lavorare (vedi per esempio la più recente “The Future Past”).
(Luca) Altri ancora (vedi quelli del nostro primo album “Gem”) sono nati a distanza.
Io e Francesco avevamo composto lo scheletro base (chitarra e batteria in stato embrionale) della gran parte dei brani di “Gem”, su cui poi Paolo e Giulia hanno lavorato e aggiunto le loro parti. Quando ci siamo trovati poi per suonarle insieme, i brani hanno iniziato ad evolversi volta dopo volta, suonata dopo suonata.
Che tipo di ascolto live vi aspettate o sperate da parte del pubblico? Meditativo, immersivo, catartico, partecipativo?
(Giulia) Ciascuno di questi aggettivi che hai usato. Dopo i live abbiamo spesso l’opportunità di conoscere molti dei nostri ascoltatori. Le persone ti fermano, ti vogliono parlare delle loro sensazioni, ti vogliono chiedere informazioni sull’origine della musica che hai creato. Attraverso descrizioni altrui, a volte ci si aprono dinnanzi agli occhi degli scenari evocati dalla nostra stessa musica, che non ci saremmo mai aspettati. È così che ci si nutre a vicenda e le energie vengono rimesse in circolo per essere nuovamente trasformate.
Notate differenze particolari tra l’approccio del pubblico italiano e quello di altri Paesi?
(Giulia) Di base ogni terra, ogni cultura, ogni luogo, ogni stanza e ogni momento, risponde diversamente e fatico a fare discorsi generalizzati. Comunque posso dire che effettivamente in alcuni contesti in Italia, ma anche altrove, si fa fatica a rispettare il raccoglimento, il silenzio che certe dinamiche lievi esigerebbero per essere godute. Ma a noi piace lavorare con quello che la realtà offre. Compito di chi sta suonando è d’essere presente sempre, centrato sulla sua opera. Può diventare divertente e pure esplosivo interagire attivamente con un pubblico più chiassoso, cosa che abbiamo sperimentato a Pola, in Croazia, lo scorso aprile, divertendoci un sacco.

Quali artisti vi hanno ispirato durante il vostro percorso? Quali realtà ritenete un punto di riferimento per voi?
(Luca) Una marea di artisti. Personalmente io mi sono appassionato alla musica così tanto da quando ho scoperto i Verdena nel lontano 2003. Li considero un punto di riferimento per il mio percorso artistico. Direi l’epifania da cui iniziò tutto.
Un’altra importante epifania furono un gruppo di cari amici nella scena pavese del lontano 2004, i “Sedna Sound”.
(Paolo) Molta musica ha ispirato e ispira il mio percorso, tra industrial, minimalismo, post-rock e tanto altro. Sicuramente il mio suono in Bosco Sacro è stato influenzato da tour e frequentazioni con musicisti incredibili fonti di grande ispirazione come Nadja, Thisquietarmy, [ B O L T ], N, ma anche tutto lo shoegaze, darkwave, trip-hop, techno e dub che è nel mio DNA.
(Francesco) Il mio professore di inglese delle superiori, che mi ha fatto scoprire a 15 anni i Don Caballero e i Tortoise. Poi sono rimasto folgorato da Earth e Labradford.
(Giulia) In ordine sparso i primi che mi vengono in mente, purtroppo escludendo molto altro, sono: Alice Coltrane, Nico, William Basinski, Dead Can Dance, Beth Gibbons, Tim e Jeff Buckley, Led Zeppelin, Nick Drake, Earth, The Gathering, Chelsea Wolfe, Anna Von Hausswolff, Hilary Woods, King Crimson, etc…
Ma agli albori di tutto la musica sacra sentita in chiesa da bambina: organo, coro e timbriche che mi portavano al cielo.
Al di fuori dei generi molto affini al vostro, cosa vi piace ascoltare nel tempo libero?
(Luca) Ultimamente ascolto moltissimo i dischi di Kali Malone, alcuni Minimalisti come ad esempio Yann Tiersen e adoro i cosiddetti musicisti aumentati: coloro che aumentano le timbriche del loro strumento acustico con l’ausilio dell’elettronica: su molti Andrea Belfi, Martina Bertoni, Joss Turnball.
(Paolo) Sto ascoltando in questi giorni l’ultimo album di Simon Balestrazzi “Scomparire” che trovo sia un capolavoro di tensione; Lou Reed, sempre, al posto del navigatore; Fred Frith & Evelyn Glennie; e in anteprima il nuovo di Julinko, un autentico gioiello.
(Francesco) In questi giorni sto ascoltando molto Toumani Diabatè, musicista maliano, maestro di kora. E anche l’ultimo disco dei Širom, che sono credo la migliore band di sempre.
(Giulia) Se parli di musica e tempo libero, non posso che pensare al sound reggae e dub. Amo muovermi e ondeggiare su questa musica e mi fa sentire in pace con tutto. Eek-A-Mouse forever.
State lavorando a nuova musica? Cosa possiamo aspettarci nel futuro dal Bosco?
(Luca) Sì!
(Paolo) Abbiamo un disco nuovo già pronto. Uscirà quando sarà il momento, nessuna fretta, ma ne siamo davvero entusiasti.

Mi piacerebbe conoscere il vostro parere sulla scena underground attuale. Differenze con il passato? Cosa ci può riservare secondo voi il futuro?
(Luca) Nella scena underground ci sono davvero moltissime realtà interessanti e oggi abbiamo i mezzi per poterle andare a trovare, dedicandoci all’ascolto che questi progetti meritano. Non tre secondi e poi via.
(Paolo) Quasi tutte le Label indipendenti più fighe e coraggiose che producevano ottima musica oggi non esistono più. I pochi progetti rimasti sono quelli che hanno avuto coraggio di sopravvivere nonostante tutto e tutti e forse sono quelli che non potevano fare altro che suonare. Penso a Zu, OvO, Ufomammut: dei veri riferimenti e maestri, di attitudine prima di tutto, a cui tutti siamo debitori per avere aperto possibilità. Una volta c’era più fame, curiosità e voglia di fare. Oggi vedo molta comodità, tutti professionisti, ma molta meno curiosità e voglia di viaggiare e suonare ovunque sia possibile farlo. Questo atteggiamento non crea movimento né in chi ascolta, né in chi suona.
Mi ha fatto molto piacere aver avuto l’occasione di fare con voi questa chiacchierata. Vi ringrazio molto per la vostra disponibilità!
Grazie a te per l’attenzione dedicataci!

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