A partire da Mylo Xyloto, i Coldplay hanno convintamente inaugurato una discutibile gestione, in egual misura discontinua ed inconsapevolmente masochista, che alterna lavori eufemisticamente definibili come controversi, ad altri (solo) parzialmente salvabili, ma comunque mai artisticamente compiuti. Per nostra fortuna (ma solo in un’ottica cinica che pensa al mero contenimento dei danni) il nuovo Moon Music è la versione lievemente più presentabile di quel Music Of The Spheres che nel 2022 ha stabilito un nuovo standard di mediocrità nella discografia della band. Ideale seguito di quel dimenticabile lavoro, tristemente ne eredita, rimodulandone solo il dosaggio, tanto i pregi quanto i difetti. Gli euforici slanci di un pop che pensa positivo vengono così ridimensionati, per l’ennesima volta, da una visione che non si dimostra mai all’altezza delle ambizioni.
Ripercorrendo gli ultimi 13 anni della band londinese, si ha l’impressione di consultare una vera e propria guida al sabotaggio delle buone intuizioni, ma questo progressivo ed innegabile calo qualitativo non nasce dalla semplice volontà di assecondare una (lecita) vocazione aziendalista. Già X&Y e Viva La Vida mostravano le prime, seppur timide, avvisaglie di quel cedimento strutturale che ora è sotto ai nostri occhi. Bisogna tuttavia ammettere che, alla luce dei numeri, saliti in modo esponenziale, questa inesorabile involuzione è stata monetizzata con invidiabile abilità. D’altro canto, la musica è un lavoro e l’artista che raccoglie cifre importanti non ha proprio nulla di cui vergognarsi, motivo per il quale l’apologia dell’alternativismo a tutti i costi andrebbe definitivamente isolata come variante della sindrome de “la volpe e l’IVA”. Chris Martin, ma è ormai solo un’illusoria proiezione ad uso di un’esigua minoranza di inguaribili ottimisti, continua a sperperare un’invidiabile capitale di efficacia melodica, senza trovare il modo di emanciparsi da un’estetica linguistica molestamente elementare.
Le evidenze emerse dal recente passato assumono oggi connotazioni ancor più avvilenti. Inequivocabilmente disegnano una rotta che conduce verso una spirale di mediocrità ormai impossibile da evitare. Con l’arrivo infatti di questo decimo album (grazie al cielo ne mancano ora solo altri due all’annunciato pensionamento della band) il promettente talento degli esordi si è ormai tristemente sciolto come il ghiaccio di uno spritz comprato al discount. Tra testi indifendibilmente asserviti a moduli espressivi criminosamente post adolescenziali e rime prevedibili come una gag di Pio ed Amedeo, dell’autore di Yellow restano solo le quaranta sfumature di un cringe involontariamente senile, votato alla rincorsa di un ingenuo giovanilismo vuotamente edonista.
Moon Music, pur riavvicinando il barometro verso valori vagamente prossimi alla decenza, continua a mostrare tutti i sintomi di un semplicismo second hand che mal si concilia con l’anagrafica del suo principale autore, il quale firma ormai i brani insieme ad una schiera di lussuosi collaboratori esterni. Il loro apporto, nel migliore dei casi, complice purtroppo il modesto materiale di partenza, riesce giusto a salvare il salvabile amplificando, spesso, la sensazione di vuoto di potere che imprigiona la maggior parte dei brani.
La title track galleggia in modo egregio grazie alla classe di Jon Hopkins. Il suo è un assist impagabile, al quale gli altri autori non rispondono con intuizioni di egual peso e le buone premesse armoniche introdotte dal piano (che restano tali solo a patto di ignorare completamente le parole) spiccano il volo senza atterrare da nessuna parte.
L’indolenza cheap di un banalissimo capriccio grafico, fatto di caratteri in minuscolo ed assenza di spazi, non basta a trasformare in avanguardia pop la povertà (musicale e lirica) di feelslikeimfallinginlove. A voler essere (parecchio) generosi, si potrebbe parlare di inno da stadio per cuori ingenui. Assegnargli il premio per il peggior singolo pubblicato dalla band è sin troppo facile.
We Pray mette sul piatto un’attitudine urban genuina come una carbonara in scatola, sprecando il featuring di una fuoriclasse come Little Simz, il cui talento finisce per affogare in un mare di qualunquismo chic.
Con Jupiter, la band prova a riavvolgere il nastro del tempo nel tentativo (anche sincero) di ricatturare (o almeno aggiornare) lo spirito di A Rush Of Blood To The Head. Tutto scorre in modo promettente, ma il rewind si inceppa e l’ascoltatore, incolpevolmente, finisce in uno stucchevole loop pseudo pedagogico. L’esito finale somiglia ad un plausibile outtake da Viva La Vida in versione scuola materna. Si tratta comunque di un gradito miglioramento rispetto ai tre brani precedenti.
A mani basse, il premio per il titolo più banale della raccolta se lo porta a casa Good Feelings. È possibile che, nel 2024, non ci sia modo di bypassare, con un briciolo di inventiva, certi luoghi comuni danzerecciamente datati? La risposta dei Coldplay è affidata ad un brano che Dua Lipa avrebbe buttato fuori, a calci, dal suo Future Nostalgia.
A recuperare (seppur con inferiore intensità) le aspirazioni pop prog già manifestate nella buona prova di My Universe, ci pensa la traccia numero sei, identificata dalla emoticon di un arcobaleno. Nonostante un ulteriore, volenteroso contributo di Hopkins, l’aspirante suite, generata dalla forzata collisione di tre brani (Neon Forest, Alien Hits / Alien Radio: Opus 5 e Angel Song), si trasforma subito in un pastiche, tanto colorato quanto meccanico e confuso. L’intreccio é chiaramente votato ad un’inevitabile implosione, favorita dal peso delle troppe idee che la band prova ad inseguire. Quel che resta somiglia ad una variante, iperglicemica e posticciamente priva di credibilità, degli Anathema più romantici.
Nonostante la fisionomia da filastrocca fuori tempo massimo per adulti irrisolti, iAAM (estroso e superfluo acronimo di I Am A Mountain) tiene botta offrendo, finalmente, un songwriting più convincente.
Il livello sale ulteriormente con Aeterna, alla quale, complice un groove “paracoolamente” assassino, tocca in sorte anche una menzione speciale come miglior escursione in territorio dance pop dai tempi di A Sky Full Of Stars. Sul finale, le si può persino perdonare una superflua sterzata verso la world music che ci riporta ai momenti più autoindulgenti di Everyday Life.
Contro ogni pronostico e con l’aiuto di una generosissima dose di mestiere, All My Love trova il modo per riconnettersi, anche se solo per quattro minuti, con la confidenziale intimità di Parachutes.
Le quotazioni medie, purtroppo, crollano nuovamente con la conclusiva One World che raccoglie i contributi vocali inviati dai fan (stando al sito del Guinness World Records sarebbero addirittura 120.000, provenienti da 204 paesi) al solo scopo di metterli al servizio di una Let It Be di sottomarca. In un clima da spicciola superficialità elevata a categoria dello spirito, il minutaggio si ferma sull’estenuante soglia dei 44 minuti
In tema di capacità di compromettere la propria legacy, solo gli U2 sono riusciti ad avvicinarsi ai risultati dei Coldplay, contribuendo a confermare, con fattiva attendibilità accademica, come taluni inciampi artistici (casuali o indotti) possano drammaticamente arrivare a minare anche certezze che si ritenevano ormai storicamente acquisite.
Bisogna tuttavia ammettere che, pur con tutte le pesantissime riserve culturali del caso, l’assemblaggio di un album del genere, infarcito di melodie efficaci al servizio di una sincera (ma assai maldestra) voglia di trasmettere valori universali, non è impresa semplice o alla portata di chiunque.
Moon Music, con il suo mood da meditazione orientale per salotti buoni, è una raccolta di brani, completamente fungibili, dei quali persino il mainstream non sente alcun bisogno.
Siamo di fronte ad un disastro appena più accettabile della catastrofe che lo ha preceduto.
Le esigue percentuali di buono presenti nella confezione amplificano solo il rammarico per le promesse di un passato che il presente non è più in grado di mantenere.
4.8/10
Tracklist
1. Moon Music
2. feelslikeimfallinginlove
3. We Pray (ft. Little Simz, Burna Boy, Elyanna & Tini)
4. Jupiter
5. Good Feelings (ft. Ayra Starr)
6. Rainbow
7. iAAM
8. Aeterna
9. All My Love
10. One World
Chris Martin – voce, tastiera (eccetto traccia 9), chitarra (tracce 2, 4-7 e 9), pianoforte (tracce 1, 3, 5-7, 9 e 10), percussioni (traccia 4)
Jonny Buckland – chitarra (eccetto traccia 6); voce aggiuntiva (traccia 10)
Guy Berryman – basso (eccetto traccia 6), mandolino (traccia 7), glockenspiel (traccia 4)
Will Champion – batteria (eccetto tracce 1 e 6), percussioni (tracce 1-3, 8 e 9), cori (tracce 2, 7 e 9), sintetizzatore (traccia 9), voce (traccia 6)
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