2024 – Sony
Sono sempre più convinto che il ruolo delle uniche, innocenti ed inconsapevoli, vittime nella storia della desolante faida, impietosamente pubblica, che continua a contrapporre Waters e Gilmour sia stato assegnato ai fan. I due ex colleghi (ex amici, ex soci, ex tutto) si sono trasformati, con una strafottente pervicacia, direttamente mutuata dai più violenti fenomeni geologici, nelle reciproche nemesi. Estremità inconciliabili di un continuum irreparabilmente interrotto, hanno instancabilmente avvelenato, con un filo di infantile compiacimento, quello stesso pozzo dal quale (complice il progressivo inaridirsi di un’ispirazione alla quale di più non è ormai lecito chiedere) ancora continuano ad attingere. In quello che, per assurdità nell’improvvisazione dei dialoghi, assomiglia ad un canovaccio da teatro dell’arte, il pubblico, irrazionalmente innamorato di un impossibile ritorno del quale sente di essere stato imperdonabilmente defraudato, ha deciso infine di salire sul proscenio per reclamare un ruolo da attore in un dramma familiare, nel quale ha scelto di indossare la maschera del figlio, prima abbandonato e poi conteso.
Chi è avvezzo a frequentare pagine completamente dedicate ai Pink Floyd (che il cielo lo perdoni) o chi, magari, caratterialmente meno incline alla militanza, preferisce sbirciare episodicamente tra i commenti social dedicati alla band, avrà probabilmente constatato un’atmosfera da aula di tribunale, associata alla sgradevole sensazione di assistere, contro la propria volontà, all’udienza di una causa di affidamento. Tutto questo in compagnia di una varia umanità d’irriducibili, affetta da un’incurabile ossessione monotematica ed equamente suddivisa tra esponenti dell’ortodossia più intransigente, lasciati ad un angolo di strada ma ancora pronti a prendere le difese del bassista (anche di fronte ad operazioni discografiche indifendibili, al limite del lucido autosabotaggio) e melomani massimalisti che, condannati a crescere in orfanotrofio, hanno orecchie solo per il raffinato fraseggio del chitarrista, in nome del quale sono pronti a giustificare decenni di affetto cordialmente discontinuo ed abitudinario. A questo punto, per completare definitivamente il realismo dell’intreccio, mancherebbe solo la svogliata routine di un assistente sociale e quasi ne immagino la voce mentre, dando fondo alle ultime gocce di retorica, domanda: a chi vuoi più bene? A mamma o a papà? E’ probabile però che un osservatore casuale, rispettabilmente meno interessato alla materia, possa invece avere la sensazione di essere finito, suo malgrado, nel bel mezzo della chiassosa ricreazione di una terza media col 6 in condotta. A non aver proprio voglia di schierarsi è invece la categoria di quelli che potremmo identificare come i “figli ormai adulti”. Questi, stanchi dei litigi tra i genitori (nei confronti dei quali continuano però a nutrire sincero affetto) ma anche provati da 50 anni di argomentazioni sempre ciclicamente identiche, preferiscono passare il Natale con altri parenti o amici. Il sottoscritto, che appartiene proprio alla suddetta categoria, non ha potuto fare a meno di notare come la comunità dei fan sia stata sciaguratamente influenzata dal livore che continua a traboccare, copioso, dagli scambi mediatici tra Roger e David. Proprio loro, a distanza di quarant’anni da una separazione che palpita come una ferita ancora fresca, perseverano nell’alimentare un gioco fatto di stoccate passivo-aggressive, la cui tossicità culturale è infine tracimante nelle discussioni di (sedicenti) fan, ormai dediti solo ad un vacuo proselitismo intransigentemente identitario.
Al netto di toni solo apparentemente più edulcorati, la suddetta querelle, in quanto a contenuti, non è meno aspra di quella che contrappone(va) i fratelli Gallagher. A ben guardare, la sola differenza sta nel fatto che, in merito al caso in oggetto, non c’è davvero cifra in grado di riportare serenità (anche se solo di facciata) in famiglia. Ecco quindi che l’arrivo di una qualsiasi ristampa (ideale per una mungitura intensiva) o di un album in proprio (un genere di evento, quest’ultimo, provvidenzialmente poco frequente) diventa occasione per (ri)accendere, a suon di post, fuochi esponenzialmente assai più ridicoli e patetici rispetto a quelli appiccati dai diretti interessati. Per tali ragioni, il dramma di questi giorni non è certo rappresentato dalla pubblicazione di un nuovo lavoro di Gilmour, ma semmai dalla prospettiva di dover trascorrere le prossime settimane facendo lo slalom tra tonnellate di (trascurabili e superficiali) commenti social pedantemente genuflessi in una prona reverenza “a prescindere” o irriverentemente inclini a riscrivere una storia che nessuno dovrebbe permettersi di mettere in discussione. Con tutta la buona musica che c’è in giro (sì amico nostalgico, non occorre rileggere, hai letto bene) questo profluvio di litigiosità post adolescenziale non fa davvero onore al blasone di un ascoltatore anagraficamente adulto.
Quindi, mio malgrado, con l’elmetto ben calzato in testa, come Fantozzi alla riunione di condominio, mi trovo qui a strappar via la plastica dal quinto album di studio di David Gilmour, un lavoro al quale tocca oggi in sorte l’ingrato compito di rompere l’equilibrio di una discografia in proprio, composta, almeno fino a ieri, da quattro titoli, due dei quali solidamente onesti (l’omonimo esordio del 1978 e On An Island) ed altrettanti affettuosamente trascurabili (l’iper modernismo invecchiato male di About Face e l’irrisolto eclettismo di Rattle That Lock). La buona notizia, voglio subito avvertire i cecchini appostati in cima alla collina, è che l’ago si muove verso valori positivi.
E’ interessante come Luck And Strange rappresenti, sin da una prima analisi esterna, un’anomalia nella “letteratura” del chitarrista inglese. La scelta innanzitutto di affidare il suono a Charlie Andrew, un nome distante non solo in termini stilistici (ha lavorato con Alt-j, Madness e Marika Hackman) ma anche anagrafici (classe 1980), racconta non tanto di una rischiosa scommessa, quanto di un’intelligente intuizione, niente affatto scontata per una rockstar di 78 anni. Per cancellare qualsiasi incertezza sulla direzione da seguire, come il diretto interessato ha avuto modo di raccontare con sincero divertimento, è stato determinante proprio l’approccio “irriverente” del produttore, schiettamente poco incline al ruolo di mero “yes man” e più costruttivamente portato alla ricerca di soluzioni che facessero uscire il proprio cliente da una dorata comfort zone. Uno dei tanti movimenti di assestamento favoriti dalla produzione ha portato all’abiura dei fade out (abitudine giurassica che andava urgentemente accantonata) ma la lista dei particolari che hanno trovato una nuova e più contemporanea collocazione è ben più estesa. Anche Waters, con l’ultimo Is This The Life That We Really Want?, aveva tentato un’analoga operazione di “svecchiamento” rivolgendosi addirittura a Nigel Godrich. Tuttavia, una simile cura, a base di un suono comunque assai meno liquido rispetto agli standard dello storico collaboratore dei Radiohead, ben poco aveva potuto fare davanti al muro (è il caso di dirlo) di un’estetica ossessivamente ripetitiva ed inamovibilmente ancorata ai moduli narrativi ad estetici di un autore unicamente interessato a contemplare la matassa dei propri traumi.
Luck And Strange non potrebbe rigettare in modo più netto, rigoroso ed urgente, un simile percorso che appare invece drammaticamente egoriferito. Il tema conduttore è quello della inesorabile violenza del tempo, il cui spietato fluire non ha rispetto per affetti e desideri dell’essere umano. L’invecchiamento, ovviamente, è parte essenziale di questo saggio intimamente domestico che difficilmente avremmo ascoltato (di certo non con un afflato altrettanto disarmante) se ad indurlo non ci fossero state le forzate restrizioni del covid. Polly Samson, da trent’anni moglie di David, per il quale è diventata anche autrice dei testi, ha convertito in versi le conversazioni che i coniugi, per mesi, hanno affrontato intorno al tema della morte e della reciproca sopravvivenza, attraverso un confronto (costante e drammaticamente sincero) che oggi, nella sua compiuta tradizione letteraria, illumina i contorni di un rapporto affettivamente e sentimentalmente privilegiato. A trasformare definitivamente queste canzoni in un affare di famiglia sono però i contributi, offerti a vario titolo, dai figli della coppia, tra i quali spicca Romany, la più giovane, resa celebre, a livello social, da un divertente meme nel quale il suo sguardo offre all’obiettivo l’affettuosa rassegnazione di chi vorrebbe solo maltrattare la propria chitarra, senza essere interrotto dalle lezioni di un padre tecnicamente assai più capace. La lista dei turnisti convocati per le registrazioni è meno corposa di quanto ci si potrebbe aspettare, ma quando si hanno a disposizione nomi come quelli di Guy Pratt, Steve DiStanislao, Steve Gadd e Roger Eno, ulteriori giri di telefonate diventano davvero superflui.
L’apertura, affidata a Black Cat, va subito a parare dalle parti di Marooned, ma si risolve in una intro troppo avara che si spegne ancor prima di riuscire ad accendersi.
La title track riconverte, in modo più asciutto, le inclinazioni bluesy di What Do You Want From Me. Basata su un’estesa improvvisazione del 2007 con Richard Wright alle tastiere (la registrazione completa è inclusa come bonus), il brano ha un’ossatura classicamente solida, la cui essenzialità massimizza l’efficacia del risultato.
Con un titolo furbo, degno del miglior autocompiacimento da clickbait, The Piper’s Call ti frega giocando a sovvertire le aspettative, ma sa anche introdurre la propria estetica, anomala per l’arsenale armonico di Gilmour, senza preoccuparsi delle reazioni di un pubblico che viene comunque accompagnato verso un ritornello la cui “apertura” riporta tutto (e tutti) a casa. Ad interrompere l’ingegnoso incastro arriva però una coda che sembra forzatamente incollata su una struttura che non le appartiene completamente. La sensazione è quella di osservare un corpo estraneo mentre si muove all’interno di una soluzione che, fino a pochi istanti prima, appariva bilanciata con eccentrica padronanza delle componenti chimiche.
L’arrangiamento di A Single Spark è una checklist di buone intenzioni e testimonia la compiuta realizzazione dell’encomiabile vocazione contemporanea che sorregge l’album, aspetto che, diventa chiaro già a questo punto dell’album, regala un tangibile giovamento espressivo all’insieme. Un approccio più accondiscendente verso la storia del chitarrista, più devoto quindi a facili e familiari numeri di repertorio, avrebbe fatto certamente implodere un brano come questo. La scrittura, benché encomiabilmente attenta a dribblare (per quanto possibile) i più insidiosi luoghi comuni di una carriera lunga sei decenni, appare comunque meno brillante rispetto a quella offerta in altri episodi della raccolta.
I quarantacinque secondi di Vita Brevis forniscono un fugace (leggasi trascurabile) intermezzo elegiaco, la cui durata è ironicamente proporzionale al titolo.
Between Two Points è una cover (gilmourizzata alla perfezione) che salta fuori dal repertorio degli sfortunati Montgolfier Brothers. Il duo, messo sotto contratto da Alan “ho scoperto io gli Oasis” McGee con la sua Poptones (etichetta erede della Creation, ma dai risultati commerciali ben più modesti), era composto da Mark Tranmer e da Roger Quigley. Portatori sani di un elegantissimo indie (imparentato con i Blue Nile ed inconsapevolmente anticipatore del dream pop a venire) i due, complice anche l’estraneità del progetto all’estetica di un’Inghilterra ancora alle prese con i postumi del Britpop, non raggiunsero mai una popolarità lontanamente proporzionale al talento del songwriting da loro offerto. Ciò premesso è quindi evidente che non resti altro da fare se non togliersi subito il cappello di fronte all’umiltà (oltre che al coraggio) di una scelta culturalmente rischiosa che va ad affondare le mani (accettando tutte le controindicazioni del caso) in una “sandbox” drammaticamente lontana dalle aspettative dei fan. Tuttavia ciò è però vero solo in linea puramente teorica, poiché l’ascoltatore più attento avrà certamente già avuto modo di notare come il taglio dolente della versione originale (targata 1999) ricordi una variante più sobria dei primissimi Porcupine Tree. Le palesi affinità tra l’incedere delle voci di Steven Wilson e di Quigley (venuto purtroppo a mancare nel 2020) fanno il resto. Si tratta insomma di una scelta certamente inconsueta che tuttavia fa abilmente tesoro di un capitale di potenzialità sottintese, portate in dote da un toccante acquerello, scarno e frugale, sulla cui solidità viene (ri)costruita una struttura (assai più corposa) che non stona affatto nello skyline delle architetture care a Gilmour. Spiace solo che l’ottimo arrangiamento sia in parte fiaccato dalla performance vocale offerta da Romany (responsabile qui, come nella traccia immediatamente precedente, anche delle parti di arpa) il cui onesto timbro non è compensato da una capacità interpretativa in grado di imprimere la giusta dose di carattere ad un insieme che ne avrebbe invece avuto bisogno. L’eventuale scelta di un’interprete differente, magari altrettanto giovane ma vocalmente più matura, unita ad una minor acquiescenza verso gli istinti paterni (che in ambito professionale si tingono di nepotismo) avrebbero congiuntamente contribuito ad un esito assai meno algido, meccanico e normalizzante.
Quello che accade nei primi venti secondi di Dark And Velvet Night fa pensare a dei Deep Purple che provano a smaltire una sbronza suonando In The Flash? a modo loro. La texture efficacemente polverosa impressa da Andrew non basta a salvare un brano che, tra mestiere e routine, spreca lo spunto di un interessante bridge, arrendendosi alla propria irrisolta vocazione. A conti fatti si tratta di un filler dall’indole un po’ troppo impiegatizia.
Sings tocca invece il vertice di scrittura dell’intero album, offrendoci un inedito affaccio, disarmante nella sua toccante sincerità, sul songwriting di Gilmour che qui, al rallentatore, riprende una scena di quotidiana intimità che trascina pensieri sospesi tra passato e futuro. Il tutto viene sigillato da un ritornello di rara bellezza, incastonato nel mezzo di in un arrangiamento che, con buona probabilità, strapperebbe un cenno di approvazione al Damon Albarn di Out Of Time. Se questo stesso livello di scrittura fosse stato confermato dal resto della tracklist, il mio cuore, a questo punto, sarebbe ormai lanciato oltre la soglia di un 8/10.
L’ultimo brano si apre con un flebile battito cardiaco, una trovata pigramente poco originale che gioca con il più prevedibile immaginario sonoro dei Pink Floyd. Istintivamente ha fatto sorgere in me il sospetto di essere atterrato in zona fan service ed effettivamente questo è quel che ha realmente da offrire Scattered. Dietro al suo andamento da High Hopes a metà, alla quale manca purtroppo l’esplosione di un chorus memorabile, di quelli che si imprimono nella memoria come un tatuaggio nella carne, si nasconde un esercizio di stile ben costruito. L’uso lirico dell’orchestra ed il fraseggio della chitarra (che in un passaggio a 4:03 cita inequivocabilmente il modello di riferimento) confermano una chiusura all’insegna del più facile deja vu emozionale, inscenato a beneficio della frangia più reazionaria di un pubblico strutturalmente incline a barattare l’immagine di un presente odioso, rifiutato a colpi di intransigente diffidenza, con i polverosi brandelli di un rassicurante ricordo.
Il minutaggio reale dell’album (il più breve della discografia di Gilmour) si ferma qui, intorno ai 43 minuti, ma c’è ancora tempo per due bonus track. Yes I Have Ghosts (già pubblicata su 45 giri nel 2021 ed inclusa per assecondare il completismo dei fan) dimostra, nonostante l’evidente continuità tematica, una natura estranea rispetto al mood delle altre canzoni. La scelta di proporla come semplice appendice all’opera si è quindi rivelata opportuna in un’ottica volta a preservare la continuità del punto d’osservazione scelto dall’autore. Gli oltre 13 minuti della jam dalla quale ha preso vita la title track, permettono invece di spiare, dietro la serratura della storia, il processo creativo di uno degli artisti che ha contribuito a plasmare la musica popolare del ‘900. La presenza di Richard Wright aggiunge certamente valore sentimentale ad una registrazione che, tuttavia, rimane poco fruibile. Dopo tutto si tratta di un semplice lavoro preparatorio (con quel che ne consegue in termini di congenita ed irrisolta ripetitività) il cui interesse è unicamente legato a questioni meramente tecniche.
E’ incredibile come Waters e Gilmour, oggi più che mai, appaiano incamminati su sentieri diametralmente opposti. Mentre il primo prosegue un’opera di osservazione nel mondo, nel tentativo (ammettiamolo, ormai vano) di mettere ordinare tra ossessioni che non vengono sciolte ma solo enumerate, il secondo aspira invece, senza alcuna incertezza, al mantenimento di un conquistato equilibrio del quale l’artista desidera godere con la pienezza di un cuore ormai leggero ed appagato. Una considerazione così palese, ma qui entriamo nel territorio del fantacalcio freudiano, fa sorgere il sospetto che, alla lista dei tanti e risalenti motivi di frizione tra i due musicisti, sia andato ad aggiungersi, da parte di Roger, anche un latente risentimento causato dal mancato raggiungimento di un traguardo esistenziale che il suo ex sodale ha invece brillantemente conseguito.
Non c’è però alcun dubbio sul fatto che Luck And Strange faccia chiaramente emergere il profilo di uomo in pace con sé stesso, risolto ed estraneo al bisogno di misurarsi con suo passato per riscriverlo o, addirittura, superarlo. Non c’è dubbio quindi che si tratti di un album sincero, sentito ed inequivocabilmente desiderato. Un capitale di umanità che, tuttavia, non basta ad elevare il risultato artistico oltre la soglia dell’onestà. E’ peccato che la fantasia di quel genio chiamato Anton Corbijn sia riuscita ad offerto una copertina così poco brillante. Ma in fondo, anche lui, come Gilmour, ha ampiamente dato tutto quello che aveva da offrire. Rispettabili e certamente superiori a quelle del precedente Rattle That Lock (ma siamo onesti, ci voleva davvero poco) queste nove canzoni (meno due superfluamente brevi, più altre due che fanno solo presenza) si spendono offrendo il giusto e facendo attenzione a non andare mai in affanno. Vista l’età e la storia di Gilmour aspettarsi qualcosa di più sarebbe davvero ingenuo e quel che c’è è già tanto.
Non è più questo il tempo dei toni trionfalistici che oggi tradiscono invece solo i bisogni generazionali di alcuni irriducibili, sempre pronti a sventolare il vessillo (ormai sbiadito) di una giovinezza che ogni giorno viene da loro idealizza con sempre maggior ferocia. Tuttavia, per un motivo culturalmente speculare, è altrettanto evidente che qualsiasi goffo tentativo di immorale revisionismo storico meriti di essere scaraventato, con gesto atleticamente rapido, sul fondo del più vicino contenitore dell’indifferenziata. Luck And Strange è come una meritatissima medaglia di bronzo, applaudiamo quindi e facciamo i complimenti all’atleta per la professionalità con la quale è riuscito a chiudere una carriera irripetibile, ma non festeggiamo come se si trattasse di un oro. Facciamolo per chi ha già vinto tutto e sta salendo, per un ultima volta, sul podio ma facciamolo soprattutto per noi.
6.7/10
Tracklist
1. Black Cat
2. Luck and Strange
3. The Piper’s Call
4. A Single Spark
5. Vita Brevis
6. Between Two Points with Romany Gilmour
7. Dark and Velvet Nights
8. Sings
9. Scattered
David Gilmour – chitarra (tutti), pianoforte (1), voce solista (2–4, 7–9), ukulele (3), basso Höfner (3, 8), organo Farfisa (3), cori (2-4, 6–8), tastiere (6, 9), organo Hammond (7), basso (9), pianoforte Leslie (9)
Richard Wright – pianoforte elettrico, organo Hammond (2)
Romany Gilmour – voce solista (6), cori (2–4, 6–8), arpa (5-6)
Gabriel Gilmour – cori (3, 4)
Rob Gentry – sintetizzatore (1–4, 6, 9), tastiere (3, 6, 8-9), pianoforte (4, 6, 8-9), organo (7)
Roger Eno – pianoforte (1, 9)
Guy Pratt – basso (2, 3, 6–9)
Adam Betts – percussioni (2, 4, 6–9), djembe (3), batteria (4)
Steve DiStanislao – batteria (2)
Steve Gadd – batteria, percussioni (3, 6–9)
Tom Herbert – basso (4)
Edmund Aldhous – organista e direttore musicale della Cattedrale di Ely
Coro della Cattedrale di Ely – voce
Coro Angel Studios – voce
Orchestra degli Angel Studios
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