Questi sedici (interminabili) anni di silenzio discografico dei Cure li ricorderemo come un pericoloso azzardo che, purtroppo, ci ha lasciati con la dolente rassegnazione di un’anima in purgatorio. In quanto a incoscienza e disprezzo del buonsenso, un comportamento come quello di Robert Smith e soci rivaleggia con l’irrazionalità suicida di quei giocatori che, pur avendo già vinto tutto, all’ultima mano mettono in gioco l’intero patrimonio. Paradossalmente, col senno di poi, iniziamo a realizzare che questa intransigente e sprezzante negazione di nuovo materiale rappresenta anche una variabile emotivamente gestibile in una storia in cui è ormai difficile distinguere il perfezionismo dall’indecisione.
Il livello di apprensione seguito all’annuncio di Songs of a Lost World (in taluni casi, come per il sottoscritto, simile al terrore suscitato da un possibile cataclisma) ha motivazioni ben più profonde, amplificate dalla lunga attesa. Per comprenderle, è necessario riavvolgere il nastro di altri sedici anni e fermarsi al 1992, quando nell’aprile usciva Wish, ultimo classico della discografia, che confermava l’elevato livello della band. Seguirono i controversi Wild Mood Swings (1996), tanto innocuo quanto prescindibile, e Bloodflowers (2000), eccessivamente criticato e deturpato da un artwork quasi da bootleg. Di The Cure del 2004 (sfortunatamente coprodotto da Ross Robinson, che aveva inventato il sound di Korn, Slipknot e Limp Bizkit) e di 4:13 Dream (2008) preferiremmo non ricordare nulla.
Nonostante questo nuovo nato racconti una storia a lieto fine, i passati lustri di estenuanti tira e molla (con lavori rinviati, cancellati e riapparsi, talvolta come un ipotetico doppio album, e addirittura un fantomatico album solista con cameo di Bowie) hanno richiesto un consumo di energie superiore al risultato ottenuto. Songs of a Lost World, però, non è la classica montagna che partorisce un topolino: rispetto ai quattro capitoli immediatamente precedenti, elimina il superfluo e opta per un suono contemporaneo, tagliente e più asciutto, senza nostalgie e pronto a sorprendere il pubblico. Tuttavia, risente di una struttura eccessivamente squadrata che, in alcuni passaggi, sembra rischiare l’effetto di un mero incastro meccanico. Il basso distorto (l’unica scelta produttiva che non mi ha convinto) e il drumming marziale e tribale creano un tappeto sonoro algido, che trasporta la musica dei Cure verso paesaggi polari e temperature proibitive.
Il livello sale, e di molto, con il singolo A Fragile Thing, che sa riconnettersi con la miglior grammatica pop della band in un contesto lunare e ancestrale. And Nothing Is Forever, con un titolo da fan service e un’atmosfera da “Natale in casa Smith”, mi ha lasciato perplesso; pur non da censurare, non si amalgama perfettamente con il resto dell’album. Emblematica, in tal senso, è la traccia d’apertura, Alone, che reintroduce i Cure al mondo e mostra il perfetto stato di conservazione della voce di Robert Smith, chiara e nitida come se fosse stata teletrasportata dai primi anni ’90.
I brani Warsong e Drone aggiungono un inaspettato incedere muscolare, intrigante e spiazzante. I Can Never Say Goodbye, dedicata da Smith al fratello scomparso, eleva subito la scrittura della tracklist, mentre All I Ever Am segna l’apice dell’album, con la chiusura epica affidata alla struggente Endsong. La statura del classico è palese. Se questo fosse l’ultimo album dei Cure (nonostante abbiano promesso altro materiale), saremmo di fronte alla loro High Hopes.
Anche sotto il profilo lirico e del linguaggio, non ci sono salti in avanti. Sta al lettore decidere se ciò sia un bene o un male. Per quanto mi riguarda, ho avuto la sensazione di ritrovare un caro amico, identico a come lo ricordavo, che dopo anni mi ha mostrato come non sia cambiato. Un’esperienza disorientante che, di riflesso, mi ha messo di fronte allo specchio dei miei cambiamenti personali. In casi come questi non ci sono torti o ragioni: accade e basta, senza sensi di colpa o rimpianti.
Songs of a Lost World è sincero e decoroso (due aggettivi non scontati) e più affine a Wish che a Disintegration. Beneficerà di un “effetto astinenza” che gli garantirà punti extra di gradimento. Al contrario di altri ritorni storici, questa incarnazione dei Cure dimostra di non voler vivere di rendita. Le otto tracce non celebrano passati dorati, ma parlano di un mondo drammaticamente mutato, che ingoia una realtà ormai lontana. Drammaticamente accurato, ma, con tutto il rispetto, non ci vivrei.
Voto: 7.2/10
Tracklist
01. Alone
02. And Nothing Is Forever
03. A Fragile Thing
04. Warsong
05. Drone:Nodrone
06. I Can Never Say Goodbye
07. All I Ever Am
08. Endsong
Formazione
Robert Smith – voce, chitarra, basso a sei corde, tastiere, scrittura dei testi, arrangiamenti, produzione, mixaggio, assistenza alla registrazione, concept della copertina, immagini
Simon Gallup – basso
Jason Cooper – batteria, percussioni
Roger O’Donnell – tastiere
Reeves Gabrels – chitarra
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