Con l’inerzia del weekend lungo ancora addosso e la città mezza svuotata, c’è chi ha scelto di
essere al Legend Club di Milano il 3 giugno, e ha decisamente fatto la scelta giusta. Portati da
Hellfire Booking Agency, sul palco si sono alternati tre nomi che hanno lasciato un segno. Dai
torinesi Pigro, ai lodigiani Irma, fino al ritorno (dopo ben dieci anni) dei newyorkesi Drug Church.
Pigro
A rompere il ghiaccio ci pensano i Pigro, in un Legend che pian piano si popola, pronto a ricevere
la prima dose di adrenalina. Il loro è un punk hardcore diretto, velocissimo e tagliente, che non
lascia spazio a fronzoli o compromessi. BPM a tavoletta, D-beat furiosi e urla feroci: una band che
sa cosa sta facendo, e lo fa bene. Il cantante si prende un momento per un intervento politico sui
conflitti contemporanei, mantenendo saldo il filo rosso dell’hardcore militante. Nonostante il
pubblico ancora in fase di riscaldamento, il gruppo tiene il palco con compattezza e una certa
esperienza. Spicca un brano dai toni più melodici, che sorprende piacevolmente in mezzo alla furia
generale. I Pigro convincono, e si sente che con un pubblico caldo e più reattivo farebbero ancora
più scintille. Speriamo di rivederli in futuro, magari a supporto del primo LP con uscita prevista a
fine estate.
Irma
Gli Irma mantengono alta l’energia, ma lo fanno cambiando registro. Il loro sound è più
sentimentale ma affilato, e trova subito un buon riscontro in sala. Portano un post-
hardcore/alternative con sfumature screamo. Il gruppo propone brani del full length auto-prodotto
“Del Nostro Scontento”, pubblicato nel 2024. I testi in italiano aggiungono spessore e intimità, e il
pubblico inizia finalmente a muoversi: ci si avvicina al palco e qualcuno azzarda un crowd surfing
solitario. Il frontman si spende molto, tra inviti a fare passi avanti e tuffi nel pit: memorabile il
momento in cui canta metà brano mentre viene sollevato dal pubblico. Forte anche l’impegno
politico e sociale, con un discorso toccante contro la violenza e in sostegno del popolo palestinese,
accompagnato da una bandiera indossata con orgoglio. Una band che unisce corpo, cuore e
pensiero in ogni pezzo. Il pubblico applaude convinto, e la sala ora è decisamente viva.
Drug Church
È il momento dei Drug Church, che dopo dieci anni tornano nel bel paese. La proposta dei
newyorkesi è un post-hardcore esplosivo e imprevedibile, dominato da un’energia scenica
travolgente. Si parte con “Fun’s Over” e ”Slide 2 Me” e la risposta del Legend è immediata.
Neanche il tempo di un paio di brani che dei temerari animano il pit tra mosh e crowd surfing. Poco
prima di “Grubby” il cantante esclama: “I don’t care how you move, but you MUST move”. La
platea lo prende alla lettera: non smetterà di dimenarsi per tutta la durata dello show, catturato in
un vortice di mosh, two-step, crowd surfing e circle pit.
Negli intermezzi il cantante si rivolge spesso al pubblico con ironia e leggerezza: racconta la sua
esperienza con Duolingo e l’italiano, sforzandosi di ricordarsi quanto appreso in circa due anni.
Anche se non è molto, il pubblico apprezza e ride col frontman della band, ma soprattutto, riprende
il fiato. Tra un aneddoto e l’altro, però, gli americani mantengono l’energia e il tiro costante,
proponendo brani aggressivi (come “Bliss Out” e “Demolition Man”) alternati a brani dall’atmosfera,
per così dire, più spensierata (come “Unlicensed Hall Monitor” e “Tillary”). Esauriscono le energie
del pubblico con “But Does It Work?”, “Million Miles of Fun” e “Weed Pin”. La chiusura non
comprende il tipico siparietto dell’ultimo brano. Il pubblico ci prova, ne vorrebbe ancora, ma questa
volta va così. Comunque, tutti sfiniti e col sorriso.
Scaletta:
1. Fun’s Over
2. Slide 2 Me
3. Unlicensed Guidance Counselor
4. Grubby
5. Bliss Out
6. World Impact
7. Mad Care
8. Unlicensed Hall Monitor
9. Demolition Man
10. Tillary
11. Myopic
12. Athlete on Bench
13. But Does it Work?
14. Million Miles of Fun
15. Weed Pin
Fotografie di Ilaria Maiorino
Testo di Riccardo Giuffrè
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