Martedì 7 ottobre 2025 — Roma, Monk Club — In una serata già pregna di attese, il Monk si trasforma in un’urna sonora pronta ad accogliere il flusso oscuro dei Preoccupations. È l’unica tappa romana del loro tour “Ill at Ease”, e fin dalle luci al tenue rossastro si avverte che sarà un concerto diverso dal solito.

Prima che il quartetto canadese calchi il palco, l’apertura è affidata agli Knitting, la giovane band montrealese che ha attirato l’attenzione con l’album “Some Kind of Heaven” e il recente singolo “Fold”, oltre al fatto che Scott Munro (dei Preoccupations) ha partecipato alla produzione del loro lavoro.

In un set di circa venti?trenta minuti, gli Knitting dispiegano atmosfere indie rock nervose, con chitarre gelide che pungono e voci trattenute che sembrano oscillare tra confidenza e inquietudine. Pur con poche pretese, riescono a stabilire il clima giusto: la sala, già riempita, si assesta, gli animi si apprestano al salto. Il loro apporto, discreto e misurato, è la perfetta introduzione al buio che verrà.

Quando le luci si abbassano definitivamente, l’introduzione silenziosa segnala che Matt Flegel, Scott Munro, Daniel Christiansen e Mike Wallace non sono lì per compiacere: sono lì per evocare. Parte “Unconscious Melody” e la platea si immobilizza, come in apnea. Il basso pulsante agisce come un sottile motore sotterraneo, le chitarre rimbalzano in frasi dissonanti, la voce di Flegel si staglia come una sagoma in controluce.

La scaletta della serata è una discesa calcolata in territori elettro?oscuri e visionari:

Ogni canzone è un nodo, una tensione pronta a sciogliersi o a fratturarsi. “Silhouettes” e “IAE” mostrano il lato più riflessivo e affilato del nuovo repertorio, ma è quando emergono “Continental Shelf” e “March of Progress” che la band consegna il suo carico emotivo più potente. In quei momenti, le percussioni di Wallace sembrano gemere sotto una pressione controllata, le chitarre si aggrovigliano in algide spirali, il basso di Flegel non è più soltanto sostegno: è linfa viscosa.

Il punto più alto della serata è probabilmente “Memory” — un brano che assume dimensioni cinematografiche dal vivo — seguito da “Krem2”, intermezzo nervoso in cui il suono sembra fratturarsi. Il finale, con “Stimulation” e “Bunker Buster”, è un’esplosione controllata: non c’è encore, perché l’onda sonora si chiude su se stessa con la stessa gravità con cui si era aperta.

Sul piano visivo, il palco rimane essenziale: nessuna distrazione luminosa, pochi effetti, nulla che distolga dall’ascolto. L’intensità è tutta nella dinamica sonora, nel contrasto tra il silenzio prima e le onde successive. È curioso notare come i Preoccupations, con la loro esperienza decennale (nata da Viet Cong e plasmata negli anni), evitino ogni gesto populista: non cercano applausi facili, non indulgono in bis estenuanti. Invece, capitolo dopo capitolo, ricostruiscono un universo di tensione e rilascio.

Eppure, nonostante la densità, non tutto fila perfettamente. Qualche passaggio si perde nella massa sonora, qualche dettaglio delle chitarre resta inghiottito dal basso o miscelato nei riverberi. Ma sono pecche secondarie, visibili soltanto se si cerca la perfezione. Chi è lì non cerca precisione sterile: vuole essere smosso, vuole essere toccato.

Alla fine, mentre le luci si riaccendono, l’aria è carica. I corpi sembrano leggeri, ma la testa è intrisa di suono. È la sensazione di aver assistito non a un semplice concerto, ma a un’esperienza liminale: un momento in cui musica e inquietudine, paura e bellezza, si fondono in un unico nervo scoperto.

I Preoccupations al Monk hanno consegnato una delle serate più memorabili che la scena post?punk romana potesse offrire nel 2025. E, grazie anche all’elegante introduzione di Knitting, il tutto è risultato coerente dall’inizio alla fine. Per chi c’era, resta la sensazione di essere stato attraversato — e trasformato — dal suono.

Si ringraziano Live Nation, Comcerto e Monk Roma.

Qui sotto le galleries della serata a cura di Chiara Lucarelli:

Knitting

 

Preoccupations

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