In quel di Malibù, appena a nord di Los Angeles, alberga da tempo un noto superchitarrista e supercantante che risponde al nome di RICHIE KOTZEN e che non è famoso solo per essere mio coscritto (leva 1970), ma anche per motivi artistici.

La definizione di superchitarrista si può così riassumere: Chitarrista dalle elevatissime doti tecniche e melodiche in grado di far piangere di disperazione fior di musicisti con decenni di esperienza che, pur dannandosi rinunciando a tutto per conseguire risultati non comuni, non arrivano nemmeno alla decenza necessaria per fargli da cambia corde.

La definizione di “supercantante” invece ve la vendo così: “Non bastava farlo bello e bravo, bisognava anche dargli una voce ineguagliabile in modo da umiliare ancora di più i comuni mortali”.

Il nostro eroe ha in dirittura d’arrivo un nuovo disco chiamato “Nomad” per la Napalm Records che personalmente aspetto arrivi sugli scaffali il 27 Settembre come la manna dopo 15 giorni di digiuno.

Richie evidentemente non gradisce troppo starsene seduto sul divano nel più bel clima della terra perché, con mille formazioni diverse, lo vediamo sciorinare le sue semibiscrome in giro per il globo quasi “on a daily basis”, come dicono qua e imbarcarsi per un lungo tour americano anche senza avere il nuovo lavoro già disponibile e distribuito.

Ed ecco che, passando per il mio pub preferito a Hollywood, vede il sottoscritto presentarsi immancabile per l’ennesima volta (spero non mi accusi di stalking) carico di aspettative (spoil alert: tutte appagate già alla prima canzone), questa volta senza Adrian Smith o Mike Portnoy, ma con la sua band storica.
Al basso abbiamo il magnificente Dylan Wilson, storico e ineguagliabile fabbro della quattro corde e ai tamburi un giovine di nome Kyle Hughes che a soli 26 anni rischia di rubare il lavoro e ben più attempati colleghi dello show business.

Bando alle ciance e andiamo a conoscere il gruppo ufficiale di spalla che risponde al nome di Mark Daly, un simpatico cantante irlandese con a bordo la band “The Ravens”; 2 irlandesi, uno scozzese e un batterista dell’Ohio: cosa ci faccia assieme un gruppo così variegato lo spiega al microfono lo stesso Mark: “I have no fuckin’ clue…”, per non mastica l’inglese: “Accipicchia, non lo so”.

Hard Rock secco, minimalista con risvolti southern, forse già sentito, ma onestissimo e con molto groove. I giovanotti ci danno dentro come se ne dipendesse la loro vita con una esecuzione simpatica e ben curata.
Alcuni titoli: “Better off alone”, che da sola basta per indagare di più sul personaggio, “Don’t look Back” e “Crying Shame”. Insomma, it’s only Rock’n’roll but we like it, segnatevi il nome che questi girano parecchio in Europa e in Italia.

È ora di giocare l’asso a fine partita: il trio Kotzen sale sul palco, senza se senza ma getta ai presenti “Losin’ my mind”, canzone storica che mette in chiaro il tono della serata. Hard rock acido con liriche dolcissime, non dimenticate che il nostro strimpellatore è un compositore d’eccezione. Nessuna pausa o indecisione, la fiche sul tavolo è ora un bluesaccio di più di un decennio fa: “War Paint”.

Come riportato da moltissimi presenti in giro per il mondo cosa colpisce immediatamente non è solo la maestria alla chitarra, il gusto infinito dei suoi licks e la tecnica strabiliante, ma una voce profondamente blues, potente e disperata che fa da collante a una esecuzione che sarebbe perfetta anche solo in versione strumentale.
Molti azzardano un paragone con Chris Cornell che, se volete, non è così avventato; molti addirittura insinuano sia persino più espressivo e con la voce più estesa, ma a noi non piace fare paragoni stupidi, vero?

Con “Fooled again” si torna sul rock/blues elettrico: nero, dannato, di chi ancora cerca la strada di casa e non sa se poi ci vuole arrivare veramente.
Non c’è un’incrinatura, un punto debole, un tentennamento, tutto scorre in un tripudio di virtuosismo e di maestria; Richie non oscura i suoi sodali, anzi ne esalta il valore e possiamo godere del lavoro sopraffino di basso e batteria, protagonisti di spazi personali.

Personalmente il picco espressivo lo trovo con “Love is Blind” in cui una canzone con un impatto da prima in classifica, un solo di chitarra da enciclopedia Treccani e virtuosismi vocali da teatro lirico stordiscono l’anima in un viaggio onirico a 110 decibel. Fa capolino “On the Table” che viene direttamente dal nuovo disco, unica esecuzione in attesa del lancio ufficiale.

Si chiude con “Remember” e bis con “Go Faster” per andare a casa appagati e dolcemente storditi da una serata non comune.

Non abituatevi, emozioni simili non sono merce venduta al mercato, le emozioni provate ancora echeggiano nella mente e il retrogusto ancora indugia sul palato; simili emozioni le ho provate con Jeff Beck e con i king Crimson, che, tra parentesi, ce li siamo già giocati.

N.d.r.: È più bravo di Chris Cornell…
BUIO.

Setlist:
Losin’ My Mind – War Paint – Fooled Again – Dogs – Bad Situation – Fear – Doin’ What the Devil Says to Do – Love Is Blind -. Help Me – On the Table – Remember
Encore: Go Faster

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