2024 – Martha’s Music

Alla fine è tornato all’ovile, Billy Corgan; forse era inevitabile, dato che gli ultimi lavori ipertrofici, tracotanti e pasticciati non sono proprio piaciuti alla maggior parte dei fan e non (usando un eufemismo).

Dopo “Shiny and Oh So Bright” (che qualche momento interessante comunque lo aveva, e lasciava ben sperare), con gli album successivi Corgan si è gettato in una parabola discendente che sembrava non avere più fine.

Con questi presupposti è inevitabile che “Aghori Mori Mei” si presenti come una ventata di aria fresca (detta in modo più cattivo, “era inevitabile fare peggio di ATUM”), anche se questo tanto sbandierato “ritorno alle origini” non c’è, ed è giusto così. È ora di metterci una pietra sopra e smettere di cercare un “Mellon Collie 2.0” o un “Siamese Dream 2.0”, così come è ora di smettere di pretendere da band in giro da 30 e passa anni di replicare i successi passati. Quelli lì restano, alti, irraggiungibili, inarrivabili e ancora, è giusto così.

Quindi, ben vengano le chitarre, ben vengano gli arrangiamenti potenti, ruffiani, cattivi; ben venga una band che FINALMENTE suona come una band. Bentornato Billy Corgan, bentornato James Iha (grande chitarrista troppo sottovalutato) e, finalmente, BENTORNATO JIMMY CHAMBERLIN; ce ne voleva ad avere tra i membri della band uno dei più talentuosi batteristi degli ultimi 30 anni ed eclissarlo totalmente in tre album, ma Billy Corgan era riuscito persino in questo. Finalmente in questo album si sente tutta la potenza dei Pumpkins, quel suono pieno e pastoso che tanto ci è piaciuto in passato. È impossibile non essere percorsi da un brivido quando a metà dell’opener “Edin”, durante un intermezzo, c’è un passaggio di chitarra che sembra uscito proprio da Siamese Dream; ti viene da dire “eccola, è quella chitarra lì, è lei, sono loro!”. Piccoli sprazzi, piccole parentesi all’interno di tutto il disco, che però hanno un peso.

Per il resto, le canzoni ci sono, molto più che nel passato recente; il disco non è di facile ascolto, non è immediato, non “entra” ai primi ascolti, anche perché, diciamocelo, sono finiti i tempi in cui Corgan creava melodie e ritornelli che ti si stampavano in testa all’istante; quella fluidità di scrittura, quel piglio fantasioso, barocco e creativo è andato via via affievolendosi nel tempo.

Però è apprezzabile la volontà di fare un bel disco rock potente e tirato, lo smalto c’è ancora. “Sighommi”, primo singolo, ha un tiro e una potenza pazzesca; “Goeth the Fall” è quasi commovente, perché riporta ai tempi del vituperato (e da me nonostante tutto adorato) Machina/The Machines of God, quest’ultimo massacrato da scelte produttive e da un suono orrendo. Ci sono anche cose nuove (qualcuno direbbe forzate o ruffiane, dipende da come la si vede), come passaggi simil-Tool (ascoltate l’inizio di “Sicarus” o certi momenti di “999”) o incursioni in territori quasi cinematografici (le sinfonie di “Murnau”). “War Dreams of Itself” (bel titolo) è dritta, potente ed efficace; “Pentecost” potrebbe essere contenuta nei momenti migliori (qualcuno ce n’era) di ATUM. Personalmente, l’episodio più dimenticabile del disco rimane “Who Goes There”, incursione nel pop sognante stile ultimi U2 (e, ahimè, ultimi Pearl Jam).

Fin qui sembrerebbe quasi tutto rose e fiori, e potenzialmente sarebbe anche potuto essere così, ma c’è un elemento che si abbatte come una scure su tutto il disco ed è, ancora, la produzione. Il produttore è l’ormai sodale Howard Willing, che mette la voce di Corgan (che non funziona più come negli anni ’90 e a volte è insopportabile) perennemente in primo piano, appiattisce tutti gli strumenti, castra la batteria di Chamberlin, oscura James Iha, e rende il suono davvero difficile da digerire. Viene davvero da chiedersi come avrebbe suonato questo disco se fosse stato prodotto da Butch Vig o da Flood.

Il disco uscirà in formato fisico verso la fine dell’anno, accompagnato da due bonus track (che potrebbero essere due sorprese, vista la qualità delle B-side passate dei Pumpkins), e non mancherà nella mia collezione personale anche perché, e qui getto la maschera, i Pumpkins sono il gruppo più importante della mia vita, e hanno plasmato tutta la mia adolescenza, e gran parte della mia vita.

Vederli a Lucca è stata un’emozione soverchiante e indescrivibile (a proposito, se parliamo di concerti, dal lato dei live rimangono eccellenti e occorrerebbe scrivere un articolo a parte su quanto la ritrovata armonia tra Corgan, Chamberlin e Iha è palpabile e a tratti commuovente dal vivo, per non parlare della presenza scenica di Kiki Wong).

Gli Smashing Pumpkins “sono tornati”? Sì e no.

Sicuramente, l’aver fatto uscire un disco diretto e potente e l’aver allontanato i guazzabugli monolitici e pacchiani è stata la mossa giusta (e l’unica possibile); il disco sta andando bene, ed è spinto tantissimo sui canali social, con l’intento di risollevare la band agli occhi dei vecchi fan e abbracciarne di nuovi.

Peccato per la produzione, e peccato che non ci siano più le grandi canzoni degli anni passati, ma per il sottoscritto è tutto sommato un passo avanti, un grande passo avanti.

Tracklist
1. Edin
2. Pentagrams
3. Sighommi
4. Pentecost
5. War Dreams of Itself
6. Who Goes There
7. 999
8. Goeth the Fall
09. Sicarus
10. Murnau

The Smashing Pumpkins
Billy Corgan – voce, chitarra, basso, tastiere
James Iha – chitarra
Jimmy Chamberlin – batteria

Altri musicisti
Katie Cole – seconda voce
Howard Willing – mixing
Andrew Scheps – mixing (tracce 1-9)
Ryan Hewitt – mixing (traccia 10)

 

 

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