Sabato 2 marzo 2024, in una serata prematuramente primaverile, ma non avara di nuvole indecise sul da farsi, l’Angelo Mai di Roma si riempie con proporzionale pigrizia. Alle 21:00 il flusso, ancora lento ma costante, lascia comunque ben sperare. Con la sicurezza di un navigato allibratore punto sul pienone entro 20 minuti, scommettendo una birra con la mia compagna. Mentre le lancette dell’orologio fanno il loro mestiere la situazione continua ad evolvere in modo rassicurante eppure, all’arrivo del fatidico “stop al televoto”, mi rendo conto di aver mancato miseramente l’obiettivo. Mestamente, guadagno la strada verso il bar allo scopo di espiare la mia arroganza. Mentre attendo il mio turno, realizzo che ad occupare la festosa e nutrita tavolata che copre un intero lato della sala c’è proprio la band. Tanto chiassoso entusiasmo non può che promettere bene. Prima di tornare verso il palco, faccio il giro lungo, in modo da buttare un occhio verso l’esterno. Vengo istantaneamente gratificato dalla vista di una significativa fila che, moralmente, ridimensiona una sconfitta immeritatamente consumata sul filo dei minuti. Del resto Any Other, la creatura animata ed accudita dalla veronese Adele Altro, continua ad esercitare, ad ormai 9 anni dell’esordio, un immutato potere persuasivo al quale il pubblico (ovviamente quello incline al fascino spiazzante di artisti non facilmente incasellabili) ha scarsissime chance di resistere. Certo i 5 anni (comunque investiti in progetti collaterali) che separano il nuovo Stillness, Stop: You Have A Right To Remember dal celebrato Two, Geography (2018) hanno rallentato gli effetti di un passaparola che ora torna a corre ad una velocità, se possibile, persino superiore rispetto a quella di ieri. Chi partecipa ad un live di Any Other non sa bene cosa aspettarsi ma è alla ricerca proprio di questo genere di esperienza borderline, al limite tra il confortante e l’inaspettato. E’ un po’ come dire all’artista: “so cosa puoi darmi ma voglio anche altro”. Chiaramente non tutti i musicisti sono in grado di rispondere ad una simile richiesta con fatti adeguatamente soddisfacenti.

Il consueto ritardo accademico porta intanto sul palco il dolce entusiasmo di Tutto Piange, ragione sociale dietro la quale opera la giovanissima Virginia Teppati. Il suo è un songwriting intimo, ma anche molto acerbo, a tratti ingenuo, che prova a guardare verso Nada Malanima e Cristina Donà. A produrla è proprio Adele, dettaglio sufficiente (sulla fiducia) per tornare, in futuro, sull’argomento.

Per Any Other le luci si accendono qualche minuto dalle 23:00 quando tutti i musicisti si raccolgono intorno ad un unico microfono per intonare Second Thought. Con naturalezza il brano si trasforma nell’invito, genuinamente persuasivo, a salire su una giostra che promette di non limitarsi a girare in tondo. Stillness Stop, con la sua urgenza contagiosa, non spoilera ancora la direzione della serata. A trasformare un semplice sospetto in certezza, ci pensa Walkthrough, con la chitarra di Adele che accende un acido fuzz al quale è demandato il ruolo dei fiati utilizzati in studio. Zoe’s Seeds e Awful Thread riportano l’inquadratura sul taglio più cantautoriale delle canzoni, ma quando termina la sequenza di I Don’t Care, Capricorn No, A Grade e Travelling Hand il quadro diventa chiaro ed un’interessante constatazione si affaccia in modo prepotente. I brani di Adele, una volta lasciati liberi sul palco, cambiano radicalmente identità. E’ un fenomeno non infrequente, ma questo è un caso davvero esemplare, nel quale aspetti latenti nella struttura dei brani, appesi agli arrangiamenti secondo un efficace gioco di sottintesi, prendono il sopravvento e si impossessano della scena. Il live di Any Other ha qualcosa di inaspettatamente lisergico, innescato dalla attitudine free form, da jam band con l’animo post punk, di tutti i musicisti. Forse una serata con i Julie’s Haircut ad accompagnare Ani Di Franco potrebbe restituire sensazioni simili. Una menzione particolare va riservata al drumming (eterodosso) di Nicolas Remondino che regala all’impianto della performance un’efficacissima suggestione jazzistica. E’ lui il collante degli arrangiamenti, secchi ed essenziali, costruiti intorno ad una saggia e misurata selezione degli strumenti utilizzati. Le sbavature dei musicisti trovano ragion d’essere in un’urgenza quasi psichedelica, capace di renderle funzionali allo spirito di un’esecuzione, di certo istintiva, ma anche governata da regole che, giustamente, non vengono certo svelate al pubblico. Per la serie “il trucco c’è ma non si vede”. Superata la metà del concerto c’è anche spazio per una cover di Angel Olsen. La sua The Waiting viene spogliata e lasciata alla sola cura di una chitarra acustica che accompagna le voci di Adele e Tutto Piange, invitata a salire sul palco per l’occasione. Il crescendo che porta al termine della serata fa deviare la setlist dal principio che, fino a quel momento, l’aveva portata ad attingere materiale, in egual misura, solo dagli ultimi due album. Arrivano così anche Something e Sonnet #4, prelevate da quel Silently. Quietly. Going Away che, con una schiettezza ancora grezza, nel 2015 già aveva argomenti per raccontare cosa sarebbe venuto dopo. Non ci sono bis, Adele non li ama e lo confessa candidamente, tra l’ilarità dei presenti (“Se proprio siete affezionati a questo rito, potete fare finta che siamo usciti e rientrati”). La sala, piena fino all’ultima fila della gradinata (indovinate ora, senza pinte di birra in palio, chi aveva ragione), si svuota al ritmo di un vivace mormorio dal chiaro significato. E’ l’inequivocabile tangibilizzazione della soddisfazione di un pubblico che ha avuto proprio ciò di cui non sapeva di aver bisogno.

Setlist Any Other
Second Thought
Stillness, stop
Walkthrough
Zoe’s Seed
Awful Thread
If I Don’t Care
Capricorn No
A Grade
Traveling Hard
Geography

Need of Affirmation
Something
Extra Episode
Sonnet #4

 

Live report di Manuel Nash, fotografie di Nicolò Bovesecchi

 

ANY OTHER

 

TUTTO PIANGE

 

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