Torna, dopo un anno di pausa, quello che nel corso degli anni è diventato uno dei festival piùimportanti della scena melodic rock europea, insieme agli inglesi Firefest e Rockingham e all’italianissimo Frontiers Rock Festival.

Stiamo ovviamente parlando dell’H.E.A.T. Festival che, come di consueto, si tiene presso la bellissima e storica venue del RockFabrik, in quel di Ludwigsburg (vicino a Stoccarda): quest’anno il festival tedesco presenta una bill di tutto rispetto comprendente, accanto a band oramai familiari al pubblico italiano come Eclipse, Ted Poley, Reckless Love e StOp sToP, anche nomi di difficile avvistamento presso il nostro paese come Robby Valentine, Johnny Lima e White Widdow, nonché l’esordio nella manifestazione dei nostrani Hungryheart, che cominciano a raccogliere anche all’estero i frutti del duro lavoro che li ha portati ad essere una delle realtà  piùluminose della scena AOR europea.

Purtroppo, dai nomi inizialmente annunciati in cartellone, sono saltati all’ultimo due personaggi del calibro di Kane Roberts e Mitch Malloy, ma lo staff del festival, guidato dall’instancabile Eddy Freiberger, non si è perso d’animo, trovando a tempo di record due rimpiazzi d’eccellenza come Treat e Valentine.

Giungiamo a Ludwigsburg nella giornata di venerdì, in tempo per abbracciare gli amici della solita compagnia di giro e per andare a fare un po’ di bisboccia presso il bar dell’hotel insieme ai ragazzi delle band svedesi presenti al festival (oltre che all’esuberante Johnny Lima), arrivati finalmente in città  al termine di un’interminabile odissea, causata dallo sciopero della Lufthansa che ha cancellato tutti i voli (tranne uno) provenienti da Stoccolma. Uno sciopero che avrebbe potuto mettere in seria difficoltà  la perfetta riuscita del Festival, ma anche in questo caso l’efficienza dello staff dell’H.E.A.T. (in particolare della splendida Claudia Maurer) è stata esemplare e tutto è stato risolto per tempo: You Can’t Stop Rock n’ Roll!

Così nel primo pomeriggio del sabato si aprono le porte del Rockfabrick e l’H.E.A.T. Festival può avere inizio”…

26 novembre 2016

 Maverick

E che inizio! La prima band a salire sul palco sono i nord-irlandesi Maverick – quintetto da poco tornato sul mercato col secondo full-length “Big Red” (Metalapolis Records, 2016) – che conquista immediatamente tutti i presenti, grazie ad una prestazione ad alto tasso adrenalinico e ad un sound muscolare, condito da cori melodici ma dal grande impatto, che ci ha riportato alla memoria la grande stagione del rock americano di fine anni 80, con sprazzi di Heaven’s Edge e di Skid Row (come nella bella “Madamoiselle”). L’entusiasmo generatosi tra il pubblico carica ancora di piùla band, tanto che il bassista Richie Diver (particolarmente apprezzato dalle ragazze in sala), correndo eccitato per il palco, travolge microfono e pedaliera del chitarrista Terry McHugh: ma questo piccolo imprevisto non può assolutamente fermare la band che chiude lo show in trionfo. Brani come “All For One”, “Whisky Lover” o la conclusiva “In Our Blood” hanno lasciato il segno, così come la performance dell’ottimo vocalist David Balfour. Una vera rivelazione: se non li conoscete ancora, andate subito a procurarvi i loro album. (Andrea Donati)

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Miss Behaviour

Purtroppo ad un inizio così folgorante non corrisponde una seconda esibizione altrettanto esplosiva: la band di Stoccolma dei Miss Behaviour, apprezzatissima su disco, oggi non riesce a colpirci altrettanto dal vivo, penalizzata da suoni poco bilanciati e da alcuni problemi tecnici. L’AOR proposto dal gruppo del chitarrista Erik Heikne necessiterebbe di suoni cristallini per essere apprezzato al meglio ed invece, sin dall’iniziale “Friendly Fire” (opener dell’eccellente nuovo lavoro “Ghost Play”, AOR Heaven 2016), le chitarre sovrastano gli altri strumenti, non permettendoci di godere appieno delle canzoni della band. Oltretutto nemmeno il vocalist Sebastian Roos sembra oggi essere proprio in stato di grazia e tutto ciò penalizza la riuscita di brani come “Cynthia”, “Double Agent” e della ballad “Till We Meeet Again”. Peccato perché la band è valida: siamo sicuri si sia trattato di una giornata storta e non vediamo l’ora di rivederli dal vivo per ricrederci. (Andrea Donati)

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Tommy Claus’ Zar

Terza band ad esibirsi sono gli storici Zar, capitanati dal cantante/chitarrista Tommy Claus. La storica band di Stoccarda è attiva da ben 26 anni e propone un potente hard rock a sfumature heavy metal. Dopo 13 anni di assenza dalle scene ha pubblicato (in giugno) un nuovo album dal titolo “Don’t Wait For Heroes”. Ed è proprio con la title track della loro ultima fatica che parte il loro set. Quella che balza subito all’occhio è la presenza scenica abbastanza nulla: questo sarebbe trascurabile se la musica si rivelasse almeno discreta. In realtà  la loro proposta si rivela piuttosto piatta e per niente originale, sconfinando in certi casi in pura noia. Si fanno preferire i brani storici come “Never So Alone”, “‘Til The Final Day” o “Heart Of The Night” rispetto al nuovo materiale, ma a giudicare dalla reazione dei loro concittadini la loro performance non appare soddisfacente. (Fabrizio Tasso)

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Houston

Con gli Houston si ritorna in Svezia: abbiamo già  avuto modo in passato di incrociare in piùdi un’occasione la band capitanata dal barbuto Hank Erix e dobbiamo dire di aver sempre assistito da parte loro ad esibizioni sinceramente degne di nota. Anche oggi il gruppo di Stoccolma, sempre piùrodato grazie ad una formazione maggiormente stabile nella quale spicca la presenza dell’apprezzato bassista Soufian Ma’Aoui, riesce a conquistare sin dai primi brani i favori del pubblico: siamo nei territori dell’AOR piùclassico, come dimostra anche la sempre spettacolare cover di “Carrie” di Michael Bolton, magistralmente eseguita dal bravissimo Hank. Brani come “I’m Coming Home”, “Hold On” e “1000 Songs” sono pura estasi melodica per chi ama le sonorità  classiche di band come Survivor (soprattutto) e Journey e non può che rallegrarci l’annuncio che finalmente nel 2017 la band pubblicherà  un nuovo album di inediti. Promossi a pieni voti. (Andrea Donati)

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Valentine

Era dal Glam Fest del 2011 a Bologna che aspettavamo di rivedere sul palco il grandissimo Robby Valentine. Fortunatamente le nostre aspettative non sono andate deluse perché l’artista olandese ha deliziato la platea con un show fantastico che ha coinvolto tutti sin dall’iniziale “Bizzarro World”. In primis si fa notare la grande capacità  di Robby di districarsi tra il microfono, la chitarra e le tastiere, dimostrando la sua eccelsa qualità  di polistrumentista. Non meno importanti le sue capacità  di songwriter che si manifestano in tracks come “No Turning Back” o “I Believe In Music”(la parte al pianoforte è strepitosa), dove il suo amore per i Queen, miscelato ad un power/AOR stracolmo di melodie trascinanti, rappresenta il suo originale trademark. Si rimane estasiati dalla maliconica “Dear Dad” o dall’incalzante “Rockstar” e quando si giunge al finale, con la cover di “Tie Your Mother Down” (cantata in maniera deliziosa dalla corista Maria Catharina, che è anche la sua fidanzata), non si può che tributargli un applauso fragoroso. Grande esibizione, tra le migliori del festival. (Fabrizio Tasso)

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Johnny Lima

Dopo un live come quello precedente sarebbe stato difficile per tutti sfoderare una prestazione memorabile. Ma Johnny Lima e la sua band hanno veramente infiammato il Rockfabrik, supportati in maniera incredibile da tutta l’audience. In effetti sembrava che il pubblico fosse li solo per lui, cantando ogni singola strofa di ogni canzone. Comunque non c’è nulla da fare, gli americani sul palco hanno sempre una marcia in più. Sono bastati dieci secondi di “My Revolution” e l’atteggiamento vincente di Johnny ha spazzato via le prestazioni delle band precedenti. L’attitudine allo spettacolo e un lotto di canzoni che vanno a pescare nell’hard rock anni 80 (per intenderci quello che sapevano fare i Bon Jovi, ma che hanno disimparato) come “Wild Flower”, “Gimme Some Rock”, “Made In California” e “Caught In The Middle” vengono eseguite con la forza di un treno in corsa, senza lasciarci un attimo di respiro. Si potrebbe andare avanti per ore a declamare l’assoluta qualità  sprigionata dal singer californiano, ma vi basti sapere che l’esecuzione di “Hard To Say Goodbye” e “Blame It On Love” rimarrà  per sempre nei cuori dei presenti. Chiude “Rockin’ In The Free World” quello che è, e non ci sbagliamo ad affermarlo, il miglior live act dell’H.E.A.T. Festival. (Fabrizio Tasso)

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Treat

Chiamati all’ultimo per rimpiazzare il defezionario Kane Roberts, i Treat salgono sul palco dell’H.E.A.T. senza il batterista Jamie Borger (rimpiazzato da Johan Kullberg dei Therion) e con il vocalist Robert Ernlund in palese difficoltà , tra malfunzionamenti dell’in-ear e vuoti di memoria che lo costringono ripetutamente a sbirciare i testi sul cellulare posto sulla pedana della batteria. Fortunatamente la presenza nel gruppo di due ottimi professionisti come Anders Wikström alla chitarra e Pontus Egberg al basso consentono di tirare avanti dignitosamente la baracca, anche se la scelta di concentrare la scaletta inizialmente sull’ultimo album “Ghost Of Graceland”, a scapito dei classici del glorioso passato della band non appare vincente. La situazione migliora decisamente nel finale grazie proprio alla proposizione di brani come “Conspiracy”, “Get You On The Run” e soprattutto negli encores di “Skies of Mongolia” e “World Of Promises”, in grado di entusiasmare tutti i presenti e di consentire allo show dei Treat di strappare alla fine un’ampia sufficienza. (Andrea Donati)

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Eclipse

Giungiamo così agli headliner del primo giorno, gli Eclipse. La band di Erik Mårtensson è stranota a tutti per riuscire a trasmettere una carica strabordante durante i loro show. Ed anche questa sera non sarà  da meno. Erik è in gran spolvero ed è una delizia poter osservare da vicino le sue mosse (tra Coverdale, Dickinson e Tempest ha avuto degli ottimi maestri) e la sua incredibile voce. Il resto della band partecipa attivamente allo show regalandoci ottime versioni di “I Don’t Wanna Say I’m Sorry”, “Wake Me Up”, “Battlegrounds” o “Blood Enemies”, che riescono ad infiammare in maniera egregia tutta la sala. Non si può che elogiare gli Eclipse, una delle poche band che riescono ad esaltare sia su disco che dal vivo. Erik è forse uno dei migliori frontman usciti negli ultimi anni. Sempre sorridente ed in perenne movimento sul palco non si risparmia un attimo continuando ad entusiasmarci con “Love Bites”, “Ain’t Dead Yet” e “Breaking My Heart Again” che mettono fine ad live infuocato prima che i roadies comincino a spiattellare torte in faccia alla band. Prestazione da incorniciare per gli Eclipse. Maniera migliore per chiudere questa prima giornata non c’era. (Fabrizio Tasso)

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Ritorniamo quindi in hotel (quello delle band) per continuare a festeggiare con i nostri beniamini. Tutti si dimostrano disponibilissimi e gentili, sfoderando sorrisi e ringraziandoci per aver partecipato. Si fa presto a fare le tre del mattino e domani si ricomincia, ma è tanta l’adrenalina che la stanchezza passa in secondo piano.

 

27 Novembre

Hungryheart

Oggi è una giornata importante. Uno dei motivi principali per i quali abbiamo presenziato all’H.E.A.T. Festival sono sicuramente i nostri connazionali Hungryheart. Ed infatti la folta carovana italiana che si è mossa al loro seguito si presenta all’ingresso ben prima dell’apertura delle porte per poter assistere al loro show in prima fila. E finalmente, alle 14:00 precise, ecco Mario, Stefano, Josh e Paolo uscire sul palco ed infiammare la sala con il loro hard rock melodico di gran classe. Inizio scoppiettante con “There Is A Reason For Everything” e “Boulevard Of Love”, che vedono prima l’esposizione di un grosso striscione in onore dei quattro Hungryheart e poi uno sventolio di bandiere italiane personalizzate “HH”. L’emozione dei ragazzi sul palco è tangibile come quella che serpeggia tra la platea, ma è soprattutto il pubblico estero a stupirci riversando tonnellate di applausi e di cori. Live perfetto con tutti i loro migliori pezzi e menzione particolare per “The Only One” estrapolata dal loro primo lavoro. “Shoreline” mette la ciliegina sulla torta di uno spettacolo di primo livello e che per molti sarà  indimenticabile. (Fabrizio Tasso)

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StOp sToP

Avevamo salutato i simpaticissimi Jacob, Danny e Vega pochi giorni fa dopo il loro concerto di Milano e ce li ritroviamo di nuovo qui a Ludwigsburg, ancora una volta direttamente dall’immaginaria città  di Barceloningham, dalla quale è stato preso il titolo del loro nuovo album, uscito pochi mesi fa per Metalapolis Records: look coloratissimo e attitudine punk sono i punti di forza di questo scatenato trio che investe subito il pubblico col suo rock n’ roll molto grezzo, che dal vivo riesce a scuotere perfino i muri del Rockfabrik. Brani diretti come “Join The Party”, “Lola” e “Toilet Party” sono scritti senza troppi fronzoli, apposta per far divertire e lo scopo viene facilmente raggiunto: Danny, con la sua capigliatura alla Telespalla Bob, pesta come un dannato sui tamburi, mentre Vega sciorina riff a ripetizione e Jacob non sta fermo un momento saltellando avanti e indietro sul palco, togliendosi pure lo sfizio di farsi una passeggiata in mezzo alla gente sulle spalle di un roadie, tra una citazione di “Thunderstruck” e una di “Black Night”. Piacevoli, anche se forse un po’ troppo “ignoranti” per un pubblico esigente come quello dell’H.E.A.T.. (Andrea Donati)

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Romeo’s Daughter

La curiosità  di poter saggiare le capacità  di un gruppo storico come i Romeo’s Daughter non capita spesso e questa sera siamo rimasti molto soddisfatti della band guidata dall’avvenente singer Leigh Matty. La voce della cantante britannica non ha perso un millesimo della sua grazia e in piùdal vivo si dimostra anche un’ottima frontwoman, coadiuvata in maniera divina dal resto della band. Scaletta bilanciata tra pezzi storici come “Heaven In The Backseat”, “Attracted To The Animals” e “Bittersweet” ed alcuni estratti da “Spin”, uscito nel 2015. La loro performance prosegue in maniera egregia raggiungendo il picco con la celeberrima “Wild Child” che viene accolta con un boato dai presenti. Grande band i Romeo’s Daughter, i loro pezzi rendono sicuramente piùdal vivo che in studio. (Fabrizio Tasso)

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Hartmann

Oliver Hartmann a nostro parere è uno dei musicisti teutonici piùapprezzati grazie alla sua notevole carriera solista ed ai lavori con Avantasia, At Vance e gli italiani Empty Tremor (giusto per citarne alcuni). E questa sera ha dimostato in toto la sua bravura. Non si e potuto che restare meravigliati della varie “Irresistible”, “High On You”, “Jaded Heart” o dall’acustica “When Your Mama Was A Hippie” estratte dal suo ultimo “Shadows & Silhouettes”. In piùle versioni del trittico finale “What If I”, “Don’t Give Up Your Dream” e “Out In The Cold” ci lasciano veramente a bocca aperta, tanta è la classe profusa nella loro esecuzione. Promossi a pieni voti nella speranza di rivederli un giorno nel nostro paese. (Fabrizio Tasso)

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White Widdow

La band australiana di Jules Millis e Enzo Almanzi è una delle piùbelle realtà  emerse negli ultimi anni sulla scena AOR mondiale ed oggi è l’occasione per testarne lo stato di salute, a pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo eccellente lavoro “Silhouette” (AOR Heaven, 2016). A dispetto di un look un po’ anonimo, fatta eccezione per il solo Jules, la band ci regala un’ottima esibizione, grazie a perle del calibro di “Below The Belt”, “Surrender My Heart” e “Angel” e, anche se la voce di Jules cala un po’ nella seconda parte del concerto, la prestazione della band è una delle migliori della giornata, con una nota di merito per l’encomiabile gusto chitarristico di Mr. Almanzi. Da citare, come ciliegina sulla torta, la proposizione a fine show della cover di “Danger Calling” dei grandissimi Icon, una delle piùsottovalutate band di tutti i tempi: grazie White Widdow! (Andrea Donati)

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Reckless Love

Ci avviniamo al concerto di Olli Herman e soci con qualche pregiudizio: d’altra parte l’ultimo album della band finlandese (“InVader”, Spinefarm Records 2016) ci aveva lasciato con l’amaro in bocca e nemmeno la loro data milanese dello scorso marzo, in compagnia dei connazionali Santa Cruz, ci aveva particolarmente impressionato. Invece oggi, vuoi perché sottopalco aumenta considerevolmente la presenza di belle figliole vogliose di divertirsi, vuoi perché magari il quartetto evita di suonare l’orrenda “Scandinavian Girls”, il loro show si rivela una bella sorpresa e ci ritroviamo tutti quanti a sculettare a ritmo di brani come “Animal Attraction”, “Night On Fire”, “Born To Break Your Heart” e pazienza se ci tocca sorbirci pure un pezzo brutto come “Monster”. La conclusiva “Hot” fa salire vertiginosamente la temperatura in sala, con tutte le rappresentanti del gentil sesso a sciogliersi davanti ai pettorali di “Barbie” Olli. Certo non stiamo parlando di una band che entrerà  negli annali della storia della musica, ma di una band che, se approcciata nel modo giusto, è in grado di regalare del sano divertimento a suon di Rock’n’Roll. Bravi. (Andrea Donati)

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Ted Poley

Chi adora Ted Poley presenzierà  sempre ad un suo concerto. Non importa quante miglia dovrete fare perché il biondo cantante americano non deluderà  mai le vostre aspettative. E anche stasera Ted ci ha deliziato con una performance tutta cuore e passione nella piùclassica delle sue tradizioni. Come in Italia, sono il “Maestro” Alessandro Del Vecchio, Anna Portalupi, Mario Percudani e Alessandro Mori a supportare in maniera stratosferica il cantante dei Danger Danger. Con una band così alle spalle tutto rimane piùsemplice e Poley impreziosisce il tutto con la sua immensa simpatia, distribuendo plettri custom e palloncini, trasformando il tutto in un party anni 80. Tra classici dei Danger Danger come “Beat The Bullet”, “One Step From Paradise”, “Under The Gun” e “Don’t Walk Away” (con annessa passeggiata attraverso la sala) e pezzi dell’ultimo “Beyond The Fade” (“Let’s Start Something” da urlo) troneggia la grande simpatia di Ted che ringraziando il singer dei “Reckless Love” aggiunge: “io sembro piùuno che si è mangiato il cantante dei Reckless Love che il cantante dei Danger Danger”. Conclude “Naughty Naughty” che vede irrompere sul palco Johnny Lima, Josh Zighetti e membri delle altre band per un finale pirotecnico. Che dire? Spettacolo allo stato puro! (Fabrizio Tasso)

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Pink Cream 69

Headliner della seconda serata del Festival sono gli storici Pink Cream 69. Complice del fatto di giocare in casa (la band è nata a Karlsruhe nel 1987), il gruppo, guidato dal bassista e leader Dennis Ward (che oggi sfoggia una barba da Babbo Natale che lo rende irriconoscibile rispetto agli inizi) e dal cantante David Readman (subentrato a Andi Deris dopo i primi tre album) sfoggia una prestazione ammirevole, andando a pescare un po’ da tutta la propria discografia e dedicando ampio spazio al proprio passato con brani del calibro di “Talk To The Moon” (splendida), “Do You Like It Like That”, “Hell’s Gone Crazy” e “Welcome The Night”. Readman, da consumato performer, sa come tenere in mano la folla e tutta la band sembra davvero oliata a dovere. Particolarmente emozionante la riproposizione in chiave acustica della ballad “One Step Into Paradise”, uno dei punti di forza del loro album d’esordio, posta a metà  set come giusto attimo di respiro all’interno di una setlist decisa e coinvolgente al punto giusto. Insomma, una piùche degna conclusione della seconda giornata del festival, con una band gratificata anche dall’ottimo riscontro di un pubblico rimasto fino alla fine della loro esibizione, nonostante domani molti dovranno riprendere a lavorare. (Andrea Donati).

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Con la fine dell’esibizione dei Pink Cream 69 si chiude l’H.E.A.T. Festival 2016. Bisogna innanzitutto lodare l’organizzazione tedesca che è stata praticamente perfetta, limitando i problemi tecnici in maniera altamente accettabile. In secondo il RockFabrik, vero e proprio luogo magico che ci ha permesso di godere appieno di tutti gli artisti, grazie ai meet & greet sempre puntuali, e che ci ha messo a disposizione viveri e bevande a prezzi umani, sempre con un’ottima cortesia. In ultimo bisogna citare l’ottima affluenza di pubblico (entrambe le serate sold out, favorite anche dalla capienza del locale), che non ha minimamente inficiato la mobilità  dei partecipanti che hanno sempre avuto un accettabile “spazio di sopravvivenza” e di movimento. Non ci resta che ringraziare gli Hungryheart (per tutto il tempo con noi), Alessandro Mori (grazie per il passaggio!), Alessandro Del Vecchio, Anna Portalupi, Johnny Lima, Ted Poley, Robby Valentine, Erik Mårtensson e tutti i ragazzi degli Eclipse, i Miss Behaviour, gli Houston, Jules Millis dei White Widdow e la compagine italiana formata da Connie, Daniela, Mary, Marco, Maxx, Erasmo, Gianluca e Sonia, Robin, Kalla, Massimo (Sandisk savior), Roberto e lo scatenato quartetto composto da Andy, Jai, Mauro e Michael, che hanno reso questa splendida avventura una vacanza indimenticabile.

In ultimo uno speciale ringraziamento a Fabrizio Tasso di Rock Rebel Magazine che ha scritto questo report insieme al sottoscritto e che ci ha concesso le foto a corredo dell’articolo.

Vi aspettiamo numerosi l’anno prossimo visto che nella bill sono già  confermati Hardline, Dare, Dante Fox, Tuff, Brother Firetribe e Crystal Ball.

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All you need to know about me is that I was born and raised on Rock 'n' Roll. We'd better let the music do the talking, as Joe Perry used to say...

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