Parliamoci chiaro: un pubblico così, un’autentica leggenda della musica piùpesante del mondo come i nipponici Loudness, spasmodicamente attesi per anni in Italia a ben 34 anni dall’esordio, non se lo meritavano proprio.
Non certo qualitativamente (ho visto con i miei occhi ragazzi portarsi dietro quasi l’intera discografia – in vinile! – della band, con “e quando li rivedo i Loudness in Italia?” come risposta piùcomune a chi gli chiedeva se gli fosse convenuto o meno portarsi appresso borse e zaini ricolmi di “pizze” di vinile sotto le micidiali calura ed umidità di questo luglio 2015), quanto numericamente.
Metteteci il già citato clima infausto e il fatto che il luogo del concerto è un locale, per quanto capiente, dal soffitto molto basso (ma, va detto, dalla buona acustica visti i certo non esaltanti standard medi italiani), il ‘caro vita’ o crisi economica che dir si voglia – che incide, specie sul portafogli di un giovane! -Â il fatto che Brescia non è magari a portata di mano, più‘decentrata’ geograficamente, e dunque meno comoda da raggiungere per tutti coloro che seguono questa leggendaria band da sempre, così come per neofiti e curiosi, ed ecco che i presenti al ‘super evento’ di un torrido mercoledì di luglio si conteranno nell’ordine delle cento persone, o, a voler essere ottimisti, pochi di più.
Ciò detto, s’è trattato di tutt’altro che un fiasco a livello organizzativo che ”“ non che fosse il caso di dirlo, ma non si sa mai! – musicale.
Glissando sui discreti opener My Own Ghost, giovane band olandese dedita a delle sonorità molto vicine ad Evanescence o Nightwish, pertanto non molto osservati dai presenti (invero pochissimi durante la loro esibizione) i Loudness sono stati esattamente come ce li si poteva – ed in un certo senso, doveva – attendere: potenti, veloci, frastornanti, melodici, coinvolgenti. Una vera melodic metal band, insomma, che s’è per fortuna lasciata definitivamente alle spalle certe – onestamente tediose nonché fuori luogo, nel loro caso – velleità ‘alternative’ o ‘grunge’ di metà /fine anni ’90, quando anche il nostro Luca Bosio ebbe l’onore (o l’onere, si dovrebbe dire, a sentir lui!) di vederli ad un Dynamo Open Air, e ne rimase piuttosto deluso, tanto da definirli “Akira Takasaki che suona grunge o alternative metal accompagnato sul palco da 3 turnisti di studio”… genere musicale che non c’entra assolutamente nulla con i gloriosi Loudness delle origini!”.
La scaletta, veramente di prim’ordine se si pensa alla mole di materiale inciso nel corso di quasi 35 anni di carriera (il primo album, “The Birthday Eve”, uscì nel novembre 1981) nonché alla qualità spesso molto elevata dello stesso, ha condensato efficacemente in poco piùdi 90 minuti d’esibizione, quasi tutto il meglio del repertorio di questi 4 giapponesi, non a torto considerati un’istituzione del rock duro in patria quanto a livello internazionale.
Quest’anno ricorre, peraltro, il trentennale dell’uscita di un disco storico nella carriera del gruppo di Osaka, quel “Thunder In The East”, disco ‘di rottura’ nella nutrita discografia dei Loudness, in quanto il primo ad essere cantato interamente in inglese e ad essere disponibile solo in un’unica versione.
Disco ampiamente ricordato e celebrato anche questa sera a Brescia come in tutto il tour europeo 2015, dato che saranno ben quattro i brani proposti dai suoi solchi nel concerto del Colony:Â “Crazy Nights” (posta in apertura di setlist), “Like Hell”, “Clockwork Toy”, e soprattutto, una spettacolare versione di “Heavy Chains”, che Fabio M. di Varese, mio antico mentore nella scoperta del genere hard’n’heavy, mi ricordò giustamente tempo addietro, essere “un brano dotato di un’epicità capace anche di surclassare i migliori Manowar degli esordi”.
Non sono nemmeno mancate le sorprese, con “The Stronger” a rappresentare il non certo esaltante “2.0.1.2.”, la title-track del valido “The Sun Will Rise Again” dell’anno scorso, a ricordarci che, quando vogliono, i Loudness sono perfettamente in grado di recuperare sonorità ‘antiche’ e di unirle a soluzioni piùmoderne senza ‘eccessi’ poco gradite a chi ritiene che il miglior hard rock e (soprattutto) heavy metal siano ancora quelli degli anni ’80 (e come darvi torto!-nda). E infine, la ‘chicca’ “Street Woman”, estratta dal primo, storico album, “The Birthday Eve”.
Fortunatamente evitate le produzioni anni ’90 quando Minoru Niihara fu sostituito ”“ dopo la non fortunatissima parentesi con l’americano Michael Vescera – da Masaki Yamada, il ‘piatto forte’ è stato incentrato tutto sugli eccellenti dischi del pre-“Thunder In The East”, ovvero “Law Of Devil’s Land” (“In The Mirror” con assolo da standing ovation di Akira Takasaki), e soprattutto, “Disillusion” (“Crazy Doctor”, prima canzone del “bis”, “Exploder” e “Esper”, quest’ultima presentata in una versione tiratissima, per nulla inferiore all’originale del 1984 quanto a potenza e velocità ). Molto piacevoli, e in verità pare molto graditi dai presenti, anche i brani del periodo più‘glam’ o ‘hair metal’della band, ovvero “Let It Go” (contrariamente all’opinione di certi ‘puristi’ del genere, dotata di un grandissimo ‘tiro’ dal vivo!), e l’obbligatoria ballad di “So Lonely” a stemperare un po’ il clima arroventato, prima della chiusura con un altro grande classico, “S.D.I.”
Peccato per l’esclusione dalla setlist di brani provenienti dal secondo, già maturo (almeno rispetto al precedentemente citato “Birthday Eve”) “Devil Soldier”, ma si tratta solo un piccolo neo in una serata assolutamente da ricordare. Così come da ricordare sono le performances individuali dei quattro nipponici, con Minoru Niihara che sembra avere perso ben poco dello smalto dei bei tempi, sia a livello vocale che in qualità di front-man, Akira Takasaki semplicemente sbalorditivo al punto di essere a volte quasi ‘ingombrante’ (ma si sa che il sound dei Loudness ruota da sempre, ed indiscutibilmente, attorno al suono della sua chitarra), e Masayoshi Yamashita sempre lì, tranquillo e solido come una roccia, a fare il suo lavoro con perizia e precisione, dall’inizio alla fine, senza sbavature. Certo la mancanza del ‘drive’ e dell’eleganza dietro a tamburi e piatti del compianto Munetaka Higuchi si fa a tratti un po’ sentire, ma il ‘nuovo arrivato’ Masayuki Suzuki è, al di là dell’aspetto a metà strada tra un wrestler giapponese, un lottatore di sumo, e un parente asiatico di ‘Iron’ Mike Tyson, un batterista comunque all’altezza della situazione.
Per chi c’era, sa che quanto ho scritto si colloca – credo – nell’ambito dell’ampiamente condivisibile, anche perché di veterani così in forma al giorno d’oggi è cosa ormai rara trovarne. Per chi se li è, invece, persi, non tema, o perlomeno, trattenga il fiato come peraltro stiamo già facendo noi che a Brescia mercoledì sera c’eravamo, in attesa di rivederli in azione sui palcoscenici italiani nel 2016.
Del resto, se anche Akira Takasaki, salutandomi a fine show, mi ha detto “See you next year!”, mi sentirei di nutrire piùdi qualche flebile speranza, perché ciò che l’uomo che è di fatto il ‘deus ex machina’ dei Loudness promette, da vero giapponese tutto d’un pezzo, fa.
Setlist:
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