Ricordo perfettamente la prima volta che ho visto dal vivo gli …A Toys Orchestra. Di solito non amo andare a concerti di artisti che non conosco, é una mia discutibile impostazione, ma l’entusiasta insistenza di un amico mi persuase ad infrangere la regola. A dire il vero il suo “Mi ringrazierai, fidati”, ripetuto con la incrollabile convinzione di un motivatore ad una convention aziendale, forse non sarebbe bastato ma in certi casi é sufficiente sfoderare un “vengo a prenderti io e ti pago il biglietto” per fare miracoli, come non se ne vedevano dai tempi del lago di Tiberiade.
La venue, usualmente adibita a discoteca per universitari “fighetti”, non sembrava promettere nulla di memorabile. Per fortuna le tipologie umane in fila davanti al locale indicavano chiaramente che, dopotutto, i miei istinti di intransigenza indie non sarebbero stati messi a dura prova. Per uno come me, che già rincorreva (avidamente) le notizie intorno ad ogni nuovo artista, ritrovarsi in quella sala, gremita di pubblico in gioiosa attesa di una band di cui, fino alla mattina, ignoravo l’esistenza, era davvero strano e spiazzante, ai limiti del contrappasso dantesco.
Mi ero certamente perso qualcosa per strada, era evidente. Nel bel mezzo del parterre, complice la presenza in città degli Afterhours per l’ormai imminente concertone del Primo Maggio, spiccava la sagoma di un incuriosito Manuel Agnelli. Una presenza che, ancora lontana dalla notorietà dei talent (siamo intorno al 2007), non destò la curiosità dei presenti, ma che finì col darmi conferma della rilevanza dell’evento. Per farla breve, a metà del primo brano, arrendendomi di fronte ad un lampante colpo di fulmine, mi precipitai al banchetto dei cd con in mano i soldi per Technicolor Dreams. Da quella sera, sempre con la sodale complicità del mio lungimirante amico, non ho mai perso una data romana della band campana. Si, in cima alla classifica degli artisti che ho visto più spesso dal vivo troneggia proprio la loro ragione sociale. Il songwriting di Enzo Moretto, l’ho già scritto nella recensione del nuovo album e lo ripeterò sino alla noia, ha un peso specifico non comune, ed il suo nome merita un posto tra i migliori autori italiani della sua generazione. A quasi due decenni da quella serata, la disponibile umiltà della formazione non è cambiata di una virgola. Certamente è proprio questo l’aspetto che ha permesso la costruzione di rapporto di intima complicità con la propria fan base Per dei musicisti orgogliosamente indipendenti che si sono sempre mossi con encomiabile coerenza, si tratta di un risultato eticamente trionfale.
Certo, dopo sette anni di stand by, era lecito nutrire dei timori. Anche volendo dimenticare, per un solo secondo, le serrate logiche cronometriche della discografia contemporanea, un simile lasso di tempo, anche per una rodatissima band di culto che non ha mai sbagliato un album, equivale ad un black out di qualche decennio. Qualsiasi incertezza legata al perdurante interesse del pubblico non può che apparire quindi comprensibile. Per stracciar via qualsivoglia mio sciocco dubbio da sovradosaggio di spirito razionale, sono stati invece sufficienti giusto pochi istanti all’interno di un gremito e fibrillante Wishlist.
Mentre mi insinuo tra la folla alla ricerca della visuale ottimale, trovo il tempo di fare quattro chiacchere con Simone, fan in quota senior appena arrivato in trasferta da Berlino. Imbattersi, già in fase preliminare, in una così palese testimonianza di devozione non può essere una banale coincidenza. Appena saliti sul palco, i cinque musicisti vengono investiti da un’istantanea ondata di schietto affetto, capace di innescare un virtuoso feedback emotivo, tra musicisti e spettatori, che non calerà mai durante tutta la performance.
Per l’apertura si va sul sicuro, lanciando in aria Wake Me Up e Welcome To Babylon, due classici che garantiscono il crescendo emozionale ideale per accompagnare l’attenzione dei presenti verso i brani del nuovo album, ai quali tocca in sorte la fetta maggiore nell’economia della setlist. Una scelta rischiosa ma che conferma, definitivamente, il valore di un lavoro (l’ennesimo) di grande pregio. Mentre i musicisti continuano a scambiarsi gli strumenti, Goodbye Day, Miss U, Midnight Gospel, Our Souls e Life Starts Tomorrow scivolano con una naturalezza identica a quella di brani ormai storici. In sala, intanto, ci si abbandona ad una sessione di karaoke collettivo che, con l’arrivo della amatissima Invisible, finisce euforicamente fuori da ogni controllo.
E’ straordinario come gli arrangiamenti, taglienti e ruvidamente distanti da quelli originali, restituiscano intatta tutta la bellezza dei brani, svelandone ed esaltandone spesso angolazioni inedite che, in alcuni casi, riescono addirittura a regalare un senso di maggior compiutezza alla stessa scrittura.
Dopo un’altra manciata di brani recenti, Look Into Your Eyes manda tutti negli spogliatoi. Nella ripresa Celentano (graditissima, come prevedibile) e Powder On The Words, precedute da Midnight Revolution, riescono a segnare, per la gioia degli amanti del bel gioco, tre gol oltre i tempi regolamentari che contribuiscono a rendere più autorevole un risultato finale già inequivocabile.
Prima del fischio finale, c’è ancora tempo per mandare in campo la tensione, quasi watersiana, di Lub Dub (unico brano in rappresentanza dell’omonimo album) la cui rumorosa coda, imparentata con gli U2 dei bei tempi, invita ormai i presenti a raggiungere l’uscita. I sorrisi di soddisfazione sono ovunque, manca solo una coppa da sollevare.
Dopo aver compiuto la immancabile ricognizione in zona merchandising, intercetto Enzo. Dopo quattro chiacchere ed un caloroso abbraccio, gli lancio un’affettuosa provocazione: “Ma un brutto album non riuscite proprio a farlo?”. Lui, serio, ci pensa per un secondo e mi fa: “E’ il nostro prossimo progetto”. Quando si dice un esempio di marketing controintuitivo.
testo di Manuel Nash
fotografie di Laura Lovreglio
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