Mascot Label Group – Aprile 2016
Quinto capitolo della band proveniente dal Kentucky, Black Stone Cherry, che dal 2006 sforna ogni due anni dischi memorabili che non hanno lasciato le classifiche mondiali e il pubblico indifferenti.
L’esordio col disco omonimo ha messo bene in chiaro l’intenzione di imporsi con un prodotto che, anche se ovviamente nulla inventa, arricchisce la base di matrice southern rock con violenti riff e passaggi intricati che pescano da un serbatoio sonoro decisamente aggressivo arricchendo le belle parti di chitarra con un vocione strappa applausi.
L’attività live è frenetica, appena uscito “Black Stone Cherry” il buon Zakk Wylde li vuole con se per un lungo tour americano ad aprire per i Black Label Society (quanto “black” in una sola recensione…) mentre i successivi dischi “Folklore and Superstition“, “Between the Devil and the Deep Blue Sea” e “Magic Mountain” li vedono come headliner in tournée mondiali che toccano ogni nazione con un palco e un’amplificazione disponibile; chi vi scrive ha assistito ad un live a Milano in cui l’energia trasmessa ad un pubblico ridotto era della stessa mistura di zolfo e nitrati che infiammava le grandi arene americane.
Tributata una generosa (e doverosa) introduzione caliamoci in questo nuovo “Kentucky” uscito da pochissimi giorni contemporaneamente ai quattro angoli del pianeta, omaggio alla terra natia e ricco di ben 15 canzoni. L’album esordisce con “The Way of The Future“, sporchissimo rock violento che riporta forse ai Clutch: nessuna concessione a facili riff commerciali, ma uno schiaffo in faccia con una bella parte vocale che esce armoniosa sulla base ritmica schiacciasassi eseguita da John Fred Young. Poco cambia con “In Our Dreams“, un altro brano non velocissimo, ma con un riff pesante, batteria suonata con le clave e non di certo con le bacchette; anche qui la voce di Chris Robertson fa la differenza e sfodera un gustoso ritornello dai toni piùmelodici rispetto alla parte strumentale, contrasto che risulta sfizioso. “Shakin’ my Cage“ si impone con la chitarrona di Ben Wells (coadiuvato dallo stesso Chris), un giovane magro e biondo che, a dispetto dei tratti gentili, tratta con maniere da boscaiolo la sua 6 corde aggiungendo alla furia quel tanto di tecnica raffinata che non annoia affatto. “Soul Machine” è puro hard rock di stampo southern che nulla insegna alla storia della musica contemporanea, ma fa battere il piedino e fa cantare, genuino, vecchia scuola. Non sono un fan accanito dei lenti, ma e’ doverosa l’incisione di “Long Ride“, melodica e piena di quei “I love You” e “Wouldn’t be the same without you” che fanno felici le radio e i discografici. Si cambia registro con “War“, compaiono  sassofono  e tromba si va su terreni addirittura soul con cori inusuali a sostenere l’ugola di Chris; il basso di Jon Lawhon deve tenere le fila di questo brano ricco di parti spezzate e non manca di fare il suo dovere. Sporchissima “Hangman” come piace a me e a quelli i quali gli anni 70 li hanno tatuati sul cuore. Un po’ di suoni campionati in “Cheaper to Drink Alone” però non spaventatevi, non abbiamo tastierine da people from Ibiza, ma un aiutino percussivo che non da fastidio; tempo molto spezzato (è il leitmotif del disco), orecchiabile ritornello e solo di chitarra da menu di chef a 4 stelle. Arriva la canzone locomotiva con “Rescue Me” con però un ritornello eccessivamente melodico rispetto alla mazzata sonora che cade tra capo e collo di chi sta di fronte alle casse dello stereo. In genere a questo punto in un disco così lungo è facile trovare materiale meno interessante, ma “Feelin’ Fuzzy” è un altro molosso con la consueta intricata parte di chitarra, l’eleganza e la potenza della voce. Confermo tutto quanto scritto con “Darkest Secret“, non ci si annoia mai e viene da suonare la “air drum” picchiando in aria invisibili tamburi, Siamo al dodicesimo brano con “Born to Die” e finalmente ne arriva uno che non mi soddisfa completamente, un tributo alla radio e alle feste rock dei licei in cui la musica non deve essere troppo aggressiva e gli studenti in festa devono ballare. L’acustica arriva con “The Rambler“, un must in dischi come questo in cui il violino country tiene le parti alla ballata. La prima delle bonus tracks “I am The Lion” fa fede al titolo e ruggisce come si deve; chiude il capitolo “Evil” e non delude rimanendo in tema con quanto ascoltato fin’ora.
Come lo chiamiamo? Violent-Southern-Rock-Metal ? Io lo chiamo “un bel disco molto maturo”, piacevole, intricato musicalmente ed energetico. Mi smentisca chi può!!!
Tracklist:
1. In Our Dreams
2. Shakin’ My Cage
3. Soul Machine
4. Long Ride
5. War
6. Hangman
7. Cheaper to Drink Alone
8. Rescue Me
9. Feelin’ Fuzzy
10. Darkest Secret
11. Born to Die
12. The Rambler
bonus:
13. I Am the Lion
14. Evi
Band:
Chris Robertson ”“ voce, chitarra
Ben Wells ”“ chitarra
Jon Lawhon ”“ basso
John Fred Young ”“ batteria
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