SP MUSIC, 2024

Quello dei Fjieri, è uno dei segreti discografici meglio custoditi degli ultimi quindici anni. Stefano Panunzi e Nicola Lori (ormai soli intestatari dell’evocativa ragione sociale) continuano a portare avanti un’idea di Art Rock la cui identità è marchiata, in egual misura, da urgenza e perseveranza. In settimane nelle quali stiamo assistendo alla (meritata) esplosione di popolarità di Matteo Mancuso, il giovane chitarrista che dalla Sicilia sembra guardare ora il mondo dall’alto, il rapporto tra pubblico e virtuosismo torna ad essere di stringente attualità. A meno di non voler ricondurre l’arte entro angusti parametri squisitamente ginnici, la tecnica di un musicista non dovrebbe essere mai confusa con la preparazione di un atleta. Infatti, mentre questi, per eccellere, é implicitamente obbligato ad offrire un livello di prestazione opportunamente commisurato a rigidi criteri standardizzati, chi imbraccia uno strumento non è invece mai condizionato da alcun rapporto scientifico tra perizia accademica e risultato finale. Senza voler in alcun modo svilire il tema della preparazione del musicista, è tuttavia evidente che, nell’equazione della creatività, non va dimenticata e sottostimata la variabile emozionale. Panunzi e Lori sono benedetti da un vero e proprio virtuosismo emotivo che, da parte di pubblico e critica, meriterebbe lo stesso scrosciante entusiasmo riservato al raggiungimento di un record olimpico.

A dieci anni dalla sua prima pubblicazione, il ritorno di Words Are All We Have, in versione Reloaded, con un nuovo mastering (più “rotondo”) e l’aggiunta di un brano che ridisegna la sequenza della tracklist, è l’occasione perfetta per scoprire il lavoro di due artisti nati in Italia a loro completa insaputa. Mi rendo conto che le mie parole potrebbero sembrare eccessivamente enfatiche o condizionate da una trascurabile fascinazione personale. Proprio per tale motivo, rimando il lettore alla consultazione dei credits dell’album. Lì troverà nomi i cui CV valgono certamente molto più di qualsiasi noiosa arringa in mia difesa. Sarà impossibile non notare le presenze di Jakko Jakszyk (che poco dopo la pubblicazione dell’album sarebbe entrato a far parte di quella che, ad oggi, è ancora la più recente incarnazione dei King Crimson), di Tim Bowness (la metà esatta, insieme a Steven Wilson, dei No-Man) e di Gavin Harrison (già Porcupine Tree e King Crimson e, attualmente, come se non bastasse, anche con The Pineapple Thief). Nel bizzarro caso in cui venissero addirittura richieste ulteriori referenze, basterà aprire il booklet dell’album precedente (il sorprendente Endless del 2009) per trovare, oltre al nome di Peter Chilvers (già collaboratore di Bowness nel magnifico California, Norfolk del 2002), anche le textures di Richard Barbieri ed il basso del compianto Mick Karn. Le collaborazioni con gli ex Japan, così come quelle con tutti gli altri musicisti sin qui menzionati, non sono affatto casuali e testimoniano di un preciso pattern umano e creativo che va ben oltre qualsiasi superficiale considerazione intorno alle affinità elettive tra gli artisti.

A parlar chiaro è, invece, proprio il dna dei Fjieri, la cui sequenza si avvolge intorno alle migliori eredità di prog ed elettronica degli ultimi 40 anni. I musicisti romani frantumano e ricompongo, secondo la propria mutante sensibilità, tanto i geni del songwriting onirico di Sylvian quanto l’ambient intellettuale di Eno. L’attitudine del basso di Lori riesce a tuffarsi nelle profondità dove nuotava Karn, andandosi ad incastonare, in modo perfetto, tra le braccia dei soundscape emotivi immaginati da Panunzi. Quella tra i due musicisti è una relazione perfettamente simbiotica che, complice la magistrale interpretazione vocale di Jakszyk, raggiunge il suo apice nell’ipnotico lirismo di It Would All Make Sense. Elementi più che sufficienti a far sorgere il dubbio di aver ascoltato un’ipotetica traccia nascosta di Brilliant Trees. A celebrare la connessione sentimentale con i modelli di riferimento arriva poi l’impeccabile cover di Flame, brano che dà il titolo al solo album (delittuosamente fuori catalogo da 30 anni) intestato alla ditta Barbieri/ Bowness. E’ per l’appunto la voce di quest’ultimo ad iniettare poi la necessaria dose di malinconia nelle trame di una Hidden Lives che trova il modo per camminare su un filo sospeso tra i Massive Attack di Teardrop ed il Fripp del periodo Exposure. L’aggiunta dell’inedita A Sens Of Lost, piazzata in apertura (al posto della fusion post Ozric Tentacles di Oriental Dream che scivola verso la fine dell’album), restituisce le suggestioni dei primi Porcupine Tree, filtrandole attraverso la lente di Steve Hillage. In The Morning, intrisa di romanticismo post wave, ha invece la felice intuizione di mettere dietro la batteria un Gavin Harrison che non ha mai dimenticato il lavoro fatto in Park Hotel di Alice.

La fluidità dell’album è tale da far sospettare che Panunzi e Lori siano effettivamente capaci di comunicare per osmosi, scambiandosi le regole di una grammatica segreta. In realtà Words Are All We Have è un lavoro che, pur rivendicando l’importanza della parola per l’esperienza umana, sprigiona un’immaginazione tale da permettergli di cucirsi addosso un linguaggio assolutamente peculiare, elegantemente accessibile ma completamente non convenzionale, in grado di trascendere le convenzioni culturali che intrecciano l’arte alla comunicazione. Derubricare un simile capitale di creatività, alla voce “ordinaria amministrazione”, sarebbe semplicemente inconcepibile, se non,  addirittura, criminale.

9/10

Tracklist:

1. A Sense Of Lost
2. The City Lights
3. Before I Met You
4. Not Waving, But Drowning
5. It Would All Make Sense
6. Flame
7. Sati
8. Hidden Ties
9. In The Blue Morning
10. Oriental Dream
11. Zombie Love
12. Damaged Goods
13. Those Words (Words Are All We Have)

Fjieri:

– Stefano Panunzi (keyboards)
– Nicola Lori (guitar)
– Elio Lori (bass)
– Angelo Strizzi (drums)

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