2024 – Monkeywrench Records / Republic Records

Dopo Riot Act (2002) i Pearl Jam, con calma, in punta di piedi e convinti, forse, di non essere osservati, hanno varcato la soglia della fase “Steel Wheels”, quella nella quale continuano a divertirsi e a fare i loro sacrosanti comodi, avendo cura di dare giusto qualche pennellata di modernità ad album che nulla aggiungono e (grazie al cielo) nulla tolgono al blasone di una carriera moralmente inattaccabile.

Ogni loro album, a partire da Vitalogy, somiglia ad un multiverso tascabile al quale ogni variante della band contribuisce con un proprio brano, predicando una logica di stabilità mobile che sposta la musica in avanti, senza mai sradicarla completamente dal suo habitat naturale. A conti fatti, la longevità artistica di Eddie Vedder e soci sta tutta nella disinvoltura con la quale riesce a fare sempre le stesse cose, ma in modo ogni volta leggermente differente. Nel loro catalogo la noia non è mai imputabile alla staticità di brani indistinguibili l’uno dall’altro nella loro inesorabile sequenza.

Purtroppo bisogna anche constatare che una muscolare dimostrazione di eclettismo, da sola, se non è accompagnata anche da una sincero fervore creativo, non basta per poter espugnare tre quarti d’ora di ininterrotta attenzione dell’ascoltatore. Per difendere lavori come l’omonimo del 2007 bisogna proprio avere la vocazione per fare “l’avocado” del diavolo (un grazie va allo Zelig di Seattle che ha rinunciato ai diritti sulla battuta).

Dark Matter ci tiene a difendersi da solo e quindi non ha bisogno di chiedere il gratuito patrocinio, ma struttura l’arringa intorno ad una strategia difensiva eccessivamente enfatica. Sacred Fear ha la confortante esuberanza che può offrirti solo un locale nel quale vai da 30 anni per il semplice fatto che ti fidi ciecamente del DJ.

React, Respond prova strade rispettabilmente anomale, saltellando in cerca di un facile pogo, ma la sua inedita eccentricità si perde una scarpa sotto al palco.

Wreckage, vertice assoluto dell’album e, più in generale, dei lavori più recenti, viaggia sulle frequenze di una classicità fatta a posta per consumare le ruote in una notte illuminata solo dai fari e da un album di Tom Petty.

La scrittura della title track, di contro, non riesce a far mistero di un’ispirazione poco personale, le cui aspirazioni finiscono con l’essere definitivamente vanificate da una produzione forzatamente modernista e pericolosamente innamorata di un cliché ridondante.

Con Won’t Tell la band va a rovistare, a modo suo, tra gli U2 di All That You Can Leave Behind ai quali aggiunge un riff a la Peter Hook come imperitura testimonianza di una risalente abitudine agli ascolti trasversali.

Il feeling di Upper Hand prova a convincere ma fa molto ‘90s di seconda mano. Stesso discorso vale per il carattere forzato di Waiting For Stevie. Con aspirazioni da sequel di Do The Evolution, Running propone un’angolazione Bad Religion eccessivamente aderente ad un modello sin troppo prevedibile.

La sequenza di Something Special (debole sin dal titolo), Got To Give e Setting Sun sa di exit strategy facile che gioca con le attese del pubblico, secondo modalità ai limiti del fan service.

Più convincente di Gigaton, ma solo di stretta misura, Dark Matter offre un’esuberante voglia di contemporaneità che, purtroppo, non incontra materiale in grado di dare compiuta realizzazione alle legittime ambizioni dei musicisti.

5.8/10

Tracklist
1. Scared of Fear 
2. React, Respond 
3. Wreckage 
4. Dark Matter 
5. Won’t Tell 
6. Upper Hand
7. Waiting For Stevie 
8. Running
9. Something Special
10. Got To Give 
11. Setting Sun 

Eddie Vedder – voce, chitarra, pianoforte, cori
Jeff Ament – basso, chitarra, chitarra baritono
Matt Cameron – batteria, percussioni
Stone Gossard – chitarra
Mike McCready – chitarra, pianoforte

Josh Klinghoffer – pianoforte, tastiere, chitarra
Andrew Watt – produttore; chitarra, pianoforte, tastiere

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