Domino – 2022

Mi ricordo ancora, diversi anni fa, (quando ancora era prassi “sbucciare” i cd appena comprati, aprendoli ed esplorando mondi fatti di immagini, testi e musica, prima dell’arrivo dello tsunami digitale) quel giorno in cui misi su quel cd con quella copertina così attraente: uno che fuma, in bianco e nero, squisitamente garage… In quei giorni andava fortissimo “I Bet You Look Good On The Dancefloor“, un pezzo di una band emergente con un nome perfetto: “Arctic Monkeys“. Una bomba.
E in effetti, quel disco fu una bomba, uno degli esordi più deflagranti di quegli anni, sicuramente seminale per tutto ciò che di garage / indie è venuto subito dopo.

Ne sono passati di anni, e di dischi, e gli Arctic Monkeys hanno cambiato più volte pelle, trasformandosi da un qualcosa di grezzo e potente, ad un gruppo stratificato, maturo e complesso.

The Car“, settimo album dei nostri, colpisce proprio per questa maturità, questa stratificazione, questo lasciarsi ispirare dal passato mantenendo una coerenza e una classe cristalline.
Il disco prende tempo, coinvolge lentamente, necessita di più ascolti, e poco alla volta ci si rende conto di avere a che fare con un’opera quasi fuori dal tempo, molto diversa da tutto ciò che i nostri hanno prodotto in precedenza.

Tutte le canzoni del disco sono caratterizzate da ritmi distesi, eterei, cadenzati; a farla da padrone sono stavolta le orchestrazioni (il disco è stato registrato insieme ad un’orchestra di 18 elementi), e l’intero disco potrebbe sembrare, con un po’ di fantasia, la colonna sonora di un film vintage anni ’60.

Se ” There’d Better Be A Mirrorball” mette subito in chiaro quale sarà l’atmosfera del disco, nella successiva “I Ain’t Quite Where I Think I Am” chitarre hendrixiane si mescolano ad archi squisitamente vintage.

Sculptures Of Anything Goes” in certi passaggi sembra uscita da un film di James Bond, e gli archi in coda a “Body Paint”, assieme ai suoi intarsi, sembrano arrivati da qualcuno di Liverpool che conosciamo tutti molto bene.

Si prosegue così, con le suite eleganti di “The Car” e “Big Ideas”, in questo viaggio retrò, fino alla fine dell’album; è qui, a metà disco, che inizia a manifestarsi una certa ripetitività di fondo, che mina lievemente un lavoro davvero curato, soprattutto negli arrangiamenti.

E’ apprezzabilissimo il lavoro di Alex Turner, (che firma tutte le canzoni assieme al resto del gruppo) che fa sfoggio di una voce davvero affascinante, in questa inedita veste di crooner malinconico; i suoi testi introspettivi e personali sono accompagnati da arrangiamenti raffinatissimi, che vedono protagonisti assoluti gli archi.

È sufficiente ascoltare il primo disco degli Arctic Monkeys e poi questo per rendersi conto di quanto sbalorditivo sia stato il cambiamento del gruppo (che fossero eclettici lo avevano già ampiamente dimostrato col gigantesco “AM” del 2013 e i successivi), e per domandarsi quale sarà la prossima pelle che vorranno indossare nel prossimo lavoro. Nel loro essere camaleontici, i ragazzi di Sheffield riescono ad essere convincenti in ogni veste, proponendo lavori sempre diversi e in qualche modo ogni volta sorprendenti anche se, in questo caso, tutto lo charme viene lentamente offuscato da una certa linearità di fondo che rende il tutto un po’ ripetitivo.

Indubbio è il valore del disco, così come apprezzabilissima è la volontà di cercare sempre vie nuove.
Chi scrive preferisce i ritmi sincopati degli esordi e le chitarre di “AM”, ma si tratta di gusti personali.
Questo è un disco, obiettivamente, di grande fascino.

TRACKLIST
1 There’d Better Be A Mirrorball
2 I Ain’t Quite Where I Think I Am
3 Sculptures Of Anything Goes
4 Jet Skis On The Moat
5 Body Paint
6 The Car
7 Big Ideas
8 Hello You
9 Mr Schwartz
10 Perfect Sense

 

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